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Cry Macho di Clint Eastwood

Per chi pensava che Il corriere – The Mule sarebbe stato l’ultimo film in cui il magnifico Clint avrebbe diretto sé stesso, Cry Macho – Ritorno a casa è la risposta chiara e ferma. Film in tono minore, rispetto ad altri suoi impegni recenti (quello antecedente, Richard Jewell era un vero gioiellino), sembra in qualche modo tradire il desiderio di Eastwood di riassumere alcuni temi cari della sua stessa filmografia ma anche rimettere in gioco il suo abituale personaggio, visto attraverso la lente della vecchiaia.

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Ambientato nel 1978, segue la storia di Miko (Clint Eastwood), ex campione di rodeo e addestratore di cavalli. Trovandosi in difficoltà economiche, per guadagnare soldi facili, Miko decide di accettare dal suo ex capo, l'incarico di riportare a casa in Texas, Rafa (Eduardo Minett), il giovane figlio dell'uomo, per proteggerlo dalla madre messicana schiava dell'alcol.

Per chi ben conosce l’opera omnia dell’autore, infatti, non è difficile intravedere sprazzi di Un mondo perfetto (l’adulto in fuga col minorenne), altri del Philo Beddoe – che viaggia insieme a un animale – da lui interpretato in Filo da torcere di James Fargo e Fai come ti pare di Buddy Van Horn (con Clint demiurgo occulto in entrambi i casi), senza contare una storia d’amore a tempo di danza intima come per lo strepitoso I ponti di Madison County, dunque L’uomo nel mirino per la fuga dalla polizia e infine lo stesso Il corriere – The Mule per quel modo di auto-demitizzarsi, ormai giunto alla vecchiaia, quand’anche ancora itinerante e nuovamente in Messico. Un caloroso, a tratti stanco, talora sardonico, ritorno a casa, per chi è affascinato dalla sua straordinaria concretezza cinematografica, sempre priva di orpelli.

Il regista-attore monopolizza la scena e ha dalla sua l’intelligenza di non tirare troppo alla lunga una storia – tratta da un libro di N. Richard Nash – che ha diversi buchi e che in realtà fatica a reggere per diversi aspetti, a voler essere onesti intellettualmente. La pellicola viene quasi del tutto salvata dalla presenza magnetica di Clint e dalla sua consueta asciuttezza narrativa. Gli attori di contorno sono di secondo piano, se si eccettua Dwight Yoakam. Rimane tuttavia negli occhi la vitalità latina della messicana Natalia Traven.

In sostanza: si era già detto del memorabile Gran Torino che sarebbe stato il testamento dell’ex protagonista della Trilogia del Dollaro. Per fortuna così non è stato, ma qui siamo certo lontani da quella miscela misteriosa di equilibrio revisionista e decostruzione millimetrica. Oltretutto, lì c’era forza. Quest’ultima opera, invece, sa di malinconico crepuscolo, anche se mai come in questo lungometraggio l’autore vuole affermare – in qualche modo – che per vecchio che sia egli non vuole perdere di vista ciò che dà senso alla vita, attraverso le azioni del suo personaggio. Consigliato a chi lo conosce bene e può trasformare qualche pecca in affettuosa carezza di ringraziamento.

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