Leggere i romanzi di Omar di Monopoli per me è sempre una sfida irresistibile.
Divoro riga dopo riga, rapita dall’uso sapiente della lingua italiana e la ricchezza di vocaboli obsoleti e ricercati.
In ogni pagina sottolineo senza sosta parole a me sconosciute, dai suoni bizzarri, oppure dimenticate perché poco utilizzate nel linguaggio comune.
Il fascino creato dallo scontro fra il dialetto salentino e un italiano coltissimo, cifra dominante di ogni sua opera, mi fa spesso deconcentrare e perdere il filo della storia.
Noir e western confluiscono in un gotico meridionale aspro e potente, crudo eppure aperto ai sentimenti. Ogni frase è specchio dei conflitti, dei paradossi e delle contraddizioni di quel Mezzogiorno che Omar Di Monopoli racconta con ironia, sincerità e rigorosa precisione delle immagini.
Un vecchio babbione pelle e ossa addossato alla mortasa del banco, l’unico altro avventore del locale, alla battuta scardinò la mascella ricamata di capsule d’oro e scoppiò a ridere di gusto in un singulto da batrace. Poi si azzittì di colpo tornando a suggere il suo Stock 84 come sotto ipnosi
I protagonisti sono i fratelli Caraglia, Rocco e Gaetano, ai quali il padre, dopo la morte avvenuta vent’anni prima, ha lasciato un’onta indelebile che segnerà per sempre le loro esistenze.
Il corpo di Livio Caraglia, infatti, eroico vigile del fuoco o, semplicemente, estorsore legato alla malavita del posto, è stato ritrovato fra i resti di un grande incendio scoppiato sul litorale di Torre Languorina.
Il disastro con tutta probabilità è opera sua, così come tanti altri “incidenti” che hanno funestato il territorio negli anni.
I capitoli sono popolati da una rosa di personaggi minori accomunati tutti da un misero destino.
Nunzia, Precamuerti, Peppo Canzirru, Mezzafacci, Pilurusso vivono,sudano, lottano, e uccidono a Languore, in un Salento che non è certo quello delle spiagge caraibiche e delle masserie a cinque stelle a cui siamo abituati.
Per le atmosfere a tinte fosche e le ambientazioni nelle terre del sud dei romanzi di Omar di Monopoli si è parlato spesso di gotico meridionale e di western pugliese e, giustamente, si è tirato in ballo anche il cinema di Quentin Tarantino.
L’aria era un braciere e in mezzo ai campi brulli, tra il feroce contrasto di argilla e opalescenza dell’ora più calda, il sole pietrificava le cose in un’immobilità preistorica. Aggrappato al recinto dello stazzo, il tubo dell’acqua in mano, Canzirru ammirava una delle sue scrofe maggiori voltolarsi nel sudiciume quasi fosse una sorta di rozza divinità del fango
A me, che sono un po’ di parte perché di origini pugliesi, molti personaggi, i loro soprannomi e le loro storie, ricordano i racconti con cui mia nonna ci intratteneva d’estate, per farci stare buoni in certi pomeriggi aridi e silenziosi, durante le nostre vacanze in Puglia.
Ogni giorno che passava i fatti narrati si arricchivano miracolosamente di dettagli, a volte truculenti, altre più cupi e paurosi, ma per me e i miei fratelli ogni parola che usciva dalla bocca di nonna suonava come un’ineffabile verità. Nessuno osava fiatare e noi bambini rispettavamo un religioso silenzio mentre fuori casa tutto il paese sonnecchiava immerso nella canicola di agosto.
Anche questo amarcord spiega perché attendo sempre con trepidazione nuovi libri di questo autore che, puntualmente, leggo in un sorso e con grande avidità.
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