Mi manca, tutto qui. Era l'unica persona al mondo che io abbia mai amato, e ora devo trovare un modo per continuare a vivere senza di lei.
La memoria e la mancanza hanno una cosa in comune – ne hanno molte, in verità – la più fastidiosa di tutte è, per me, la fallacità. Avete presente quel momento in cui cercate di recuperare un ricordo e lo inseguite in un testa a testa impari, e lui vola più veloce, e voi correte. Ma lui vola. E avete perso. È andato via, lontano e non sapete se riuscirete mai più a riprenderlo. Ecco. Quel frangente di impotenza ha a che fare con la fallacità della memoria, con la fallacità della mancanza.
E Baumgartner, ultima fatica di Paul Auster, non fa che – sornionamente e dolorosamente – ricordarcelo.
La vita di Seymour Baumgartner è stata definita dall’amore per la moglie Anna. Ma ora Anna non c’è più e Baumgartner si inoltra nei settant’anni cercando di convivere con la sua assenza. Dopo un romanzo-mondo come 4321, Paul Auster ritorna con un libro all’apparenza semplice e lineare, proponendo ai lettori il suo personaggio forse più simpatico ed empatico, un uomo che al termine della vita si interroga sulle cose essenziali, inciampando e andando a sbattere come in una vecchia comica malinconica.
Professore e scrittore di testi di filosofia, Baumgartner, sembra un uomo qualsiasi, passa le sue giornate serenamente, ordina libri che donerà alla biblioteca comunale solo per scambiare due chiacchiere con Molly, fattorina dell’Ups, ma soprattutto Baumgartner si ferma e ricorda.
Ha perso sua moglie dieci anni prima, per colpa di un’onda anomala. Anna che amava il mare, Anna con il fisico da nuotatrice che sembrava essere stato scolpito per fondersi con l’acqua salata, Anna che aspetta l’ultimo tuffo, ancora e ancora, perché non basta mai il desiderio di sentirsi libera. E così succede che c’è una conoscenza che Baumgartner fa di sé, senza e con Anna, un prima e dopo in cui è come se gli assi temporali di una vita si estendessero nei prolungamenti che dà l’amore, che toglie.
Se non fosse tornata in acqua sarebbe ancora viva, ma non saremmo stati insieme per più di trent'anni se per esempio avessi provato a impedirle di entrare in acqua quando voleva.
E se l’amore per sua moglie, la mancanza, permeano tutto il libro, Auster torna a compiere una delle sue prodezze più rare, qualcosa che ha a che fare con l’umanità e con la necessità di recuperarla.
Innanzitutto, Baumgartner è un personaggio a cui ci si affeziona sin da subito, perché ha una capacità di meravigliarsi, di essere grato per la gentilezza e questa semina dimentica per gli uomini è uno dei germogli più riusciti di queste pagine. Non c’è stucchevolezza, non c’è pianto di miseria, non c’è compassione ossequiosa ma inscalfibile tenerezza. Lo sguardo di questo professore non risulta goffo, né compiuto, piuttosto è attento, ha imparato da quello che la vita gli ha donato, a prescindere da tutto, e non se la sente proprio di non essere riconoscente. E, in un’epoca così difficile, la gratitudine sembra quasi una forma di rivoluzione.
Dubbi, sì, momenti di disperazione, sì, ma esiste forse uno scrittore o un artista che non vive in quel territorio instabile tra fiducia e disprezzo di sé?
E così, è un alternarsi dolcemente profano, quello del dolore con la gratitudine. Uno dei rimandi che ho letto più spesso in questi giorni è che Auster ha dichiarato che potrebbe essere il suo ultimo romanzo, una sorta di lascito testamentario. Chissà, qualsiasi sia la spinta dietro queste pagine, tutto mi sembrano fuorché un'esorcizzazione della morte, anche se, si sa, gli scrittori sono fra i più grandi codardi, ma anche fra i più grandi menzogneri.
Ma se così fosse, c'è questo momento in cui Baumgartner sente ancora i tasti di Anna che ticchettano per casa, che lo riportano a lei, mentre lui continua a provare a vivere, senza remore, ma con la presenza cucita addosso, cercandosi fra le parole di lei che sono rimaste, che lei ha scritto negli anni. Ché la memoria può tradire, ma la scrittura no, forse questo è ciò che conta, ciò che resta.
E anche la mia memoria scorretta mi riporta a quando ho letto per la prima volta Paul Asuter, è stato con Diario d'inverno, che rimane tuttora uno dei miei libri preferiti. Ricordo la fatica, il freddo, la necessità di chiudere e respirare un po', perché ci sono parole che sanno trovarti meglio di altre, che sanno perfettamente dove scavare e, per fortuna, – anche Baumgartner lo sa bene – rievocano la memoria di cui non sapevi di avere bisogno. Ti fermi, non corri più dietro a un ricordo lontano, ne arriva un altro e, non si sa come, ti salva.
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