Detroit, Michigan. 1977.
Per le strade si aggira un serial killer che rapisce e uccide bambini. Ma solo quelli non amati e non meritati dai genitori, così si dice. Li lega, nudi come il giorno in cui sono nati, e scatta delle foto. Quando alla fine muoiono – disidratati, soffocati, strafatti – lui lava i corpi e i vestiti e li abbandona in giro per la città.
Babysitter.
Così lo identifica la stampa.
Nella vita vera il colpevole non è mai stato trovato.
In letteratura, invece, Joyce Carol Oates decide di dargli un nome e un volto, scrivendo una storia (edita in Italia da La nave di Teseo) in cui, tuttavia, rimane sullo sfondo, come motore della vicenda: una notizia sui giornali, una linea trasversale che collega e unisce i protagonisti, un battito d’ali di una farfalla che scatena un uragano – non dall’altra parte del mondo ma più vicino, nella sua stessa città.
Tra il 1976 e il 1977 una serie di terribili omicidi sconvolge la città di Detroit. Un serial killer, che un giornalista ha ribattezzato Babysitter, ha ucciso almeno sei ragazzini nella contea di Oakland, un quartiere residenziale di Detroit. Le vittime sono state rapite mentre erano da sole e i loro corpi senza vita vengono fatti ritrovare a distanza di giorni, in luoghi pubblici, accuratamente lavati e ricomposti.
La sua sola esistenza, unita alla scrittura alienante e conturbante della Oates, è comunque abbastanza per generare nel lettore un perenne stato di ansia e attesa. Ansia che rimane anche dopo la fine del libro – perché cose del genere accadono, e di Babysitter ne esistono anche oggi –, e attesa che non viene mai davvero soddisfatta: Babysitter rimane un’ombra tre le ombre, il mostro sotto al letto.
Non è un giallo, non ci sono delle vere e proprie indagini, perciò il lettore può ricostruire la storia in modo autonomo solo grazie all’alternarsi dei punti di vista dei due protagonisti: Hannah e Mikey.
Hannah Jarrett.
Mrs. Jarrett.
Moglie di Wes Jarrett, un uomo che non la vede più.
Mami di Katya e Conor, che hanno sempre bisogno di lei ma che non la conoscono.
Non donna. Non Hannah.
Han-nah. Così la chiama Y.K., l’amante di cui non sa nulla ma che l’ha sedotta, che la vede.
Quale sei tu?, le chiede.
Non chi, ma quale.
Perché una donna non può essere e basta, non in quel periodo. Una donna come lei – bianca e ricca la descrive la Oates, denunciando la gerarchia sociale – deve per forza essere la moglie di un uomo – bianco e ricco pure lui.
Se Hannah fosse una delle pistole di Cechov, sarebbe una che non spara. È carica, pronta, ma alla fine non spara. Ogni cosa sembra capitarle senza che abbia il controllo su niente – quando invece è lei che muove il proprio corpo fino alla camera 6183 al sessantunesimo piano del Renaissance Grand Hotel.
L’unica pistola che spara davvero è Mikey.
Mikey Kushel. Codadicavallo. Mikhail.
Tre nomi, tre evoluzioni.
Arriva un po’ tardi nella narrazione, ma non delude le aspettative del lettore. Niente di tutto ciò che fa sarebbe dovuto toccare a lui, eppure, in un qualche crudele modo di vederla, non poteva che toccare a lui.
Nella camera 6183 al sessantunesimo piano del Renaissance Grand Hotel Mikey Kushel si riprende la propria vita, in una maniera o nell’altra.
E davanti alla porta, come un avvertimento dantesco, c’è scritto:
PRIVACY PER FAVORE!
NON DISTURBARE
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