Si parte da un presupposto difficile da smentire: dell’America tutti pensano qualcosa. Che sia in bene o che sia in male. E se, come accade in questi giorni, in gran parte degli USA un diritto arranca, viene naturale pensarlo un po’ meno al sicuro anche da noi, che a quella sterminata nazione bagnata da due oceani guardiamo come cuore di democrazia, modernità, avanguardie, rivoluzioni. Un mondo da copiare.
Eppure, che la Corte Suprema avrebbe ribaltato la sentenza “Roe vs Wade” del ’73, negando di fatto alle donne il diritto costituzionale all’aborto, era già nell’aria. Di quali umori sia figlia la decisione, lo spiega bene Federico Rampini in America. Viaggio alla riscoperta di un Paese, appena edito da Solferino. Un saggio profondo, lungo quasi 300 pagine, in cui il giornalista, corrispondente prima da San Francisco e poi da New York, svela controsensi, luoghi comuni, idiosincrasie, strappi alla bandiera di un territorio ipervisibile e megalomane, campo magnetico in cui agiscono molte forze, di natura sempre diversa.
Federico Rampini compie uno slalom fra le contraddizioni, un'operazione di pulizia dai preconcetti, e ci regala una guida di viaggio in senso letterale: perché si può comprendere l'America solo vivendola e guardando dietro le apparenze. Per intuire magari dove andrà a finire.
Leggere Rampini è illuminante, non solo per la densità di temi e sguardo, ma perché significa prestarsi a un esercizio di verità. Puntuale e accattivante, tra ricostruzioni saggistiche miste ad aneddotica personale, l’autore scrosta preconcetti, demolisce stereotipi e falsi miti che, ispessiti da cinema, musica, costume, spettacolo, danno al resto del pianeta la sensazione finta di conoscere già tutto, di poter dire la propria su questo o quel concetto. Quando invece l’America è altra cosa.
Scrive Rampini: «Sono convinto che non puoi capire una nazione se non ci hai messo le radici in modo concreto: hai iscritto i tuoi figli a scuola, paghi le tasse e le assicurazioni obbligatorie, hai un medico locale e frequenti il sistema sanitario dall’interno, partecipi alle assemblee di condominio, sei stato convocato in tribunale come membro di una giuria popolare, usi i mezzi pubblici tutti i giorni, hai visto dall’interno un commissariato di polizia e lo sportello della Social Security».
E in effetti sugli States l’autore ha gli occhi da un quarto di secolo. Abbastanza per carpirne paradossi e metamorfosi, oltre che – ed è tra i punti più attraenti del libro – per spiegare dall’interno i due sistemi di valori che spaccano a metà il Paese. Più che di America, perciò, avrebbe senso parlare di Americhe, che «si guardano in cagnesco, ottengono le loro notizie da televisioni diverse, vivono in due realtà parallele, come due pianeti distanti anni luce. Ogni tanto vince una, quando si va a votare; poi vince l’altra».
Sono l’America profonda e l’America costiera (esclusa la Florida, caso a sé), l’America conservatrice e quella progressista, ma poi anche: l’America dei ricchi e quella degli indigenti, di chi ha l’assicurazione sanitaria e chi no, di chi parla l’inglese e chi è arrivato da Messico, India, Vietnam assuefatto dal sogno americano, un tempo florido.
Gli Stati Uniti non sono mai stati così disuniti, le differenze da un angolo all’altro si sono dilatate negli ultimi anni. E in fondo la loro dimensione continentale giustifica la diversità. Nel territorio che occupano ci sono le stesse differenze climatiche, paesaggistiche, etniche e culturali che in Europa oppongono l’Islanda alla Grecia; il Portogallo alla Germania
Quella che ricostruiamo, dopo una lettura amara e appagante insieme, è una realtà non facile, attraversata da tanti “ma”: la sanità privata ha costi crudeli, ma se sei povero hai diritto all’assistenza pubblica; si continua a salvaguardare il diritto ad armarsi, ma esiste anche «una cultura delle armi che non ha niente a che vedere con i suprematisti bianchi, l’estrema destra, Trump». Una realtà dove spendere migliaia di dollari l’anno per l’istruzione non è garanzia di qualità e i giovani «nell’economia hanno un potere reale, ma lasciano ad altri la scelta di chi li governerà».
Tutto questo mentre pezzi di West Coast migrano verso i paradisi della Florida, i grattacieli di New York svettano meno e la sinistra radicale impone un revisionismo ferreo sull’orma del politicamente corretto. È la woke culture: «il risultato della presa di potere da parte di una giovane generazione di giornaliste e giornalisti, indottrinati dalle università, abbarbicati al dogma per cui “solo il bianco è razzista”».
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