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Afterparties di Anthony Veasna So

Dell’essere disorientati ne so qualcosa. So cosa si prova a vivere con un passato che sfugge a ogni logica

Esistono dei racconti – molto esatti – in cui si mette in scena quell’istante preciso in cui esplode una bomba. Non letteralmente, si capisce. Restituiscono, cioè, quei fuochi d’artificio ad alta tensione che in poche, folgoranti righe contengono un mondo: un litigio violento, un primo bacio impacciato, la frazione di secondo in cui ci si rende conto di non amare più qualcuno. Racconti sulle cose che succedono, insomma.

Poi ci sono altri tipi di racconti, che definirei, non a caso, afterparties. Qui, lo dice la parola stessa, le cose sono già successe: sono i momenti – meno esatti, più diffusi nello spazio e nel tempo – che seguono la festa, la bomba è esplosa, la fiammata emotiva c’è già stata. Ci si potrebbe immaginare che siano quasi esercizi di stile per dimostrare che un bravo scrittore è capace anche di scrivere del nulla. E invece non è così.

In questi afterparties c’è tutto il mondo, e forse anche qualcosa di più, che c’era mentre le cose succedevano. È solo che è un mondo meno violento, più ingombrante, perché è pieno di dettagli insignificanti che nelle nostre vite contano tantissimo. Una raccolta di racconti così non poteva che chiamarsi, guarda un po’, Afterparties.

Afterparties. Ediz. italiana
Afterparties. Ediz. italiana Di Anthony Veasna So;

In questa raccolta di racconti, l'autore restituisce l'esistenza comune e quotidiana di quei cambogiani immigrati negli Stati Uniti dopo il genocidio di Pol Pot alla ricerca di una vita migliore.

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Mi viene in mente che forse è per questo che non ha paura della morte, per far finire il dolore

Questa raccolta l’ha scritta un americano di Stockton che si chiama Anthony Veasna So. Ha origini cambogiane, anche se in Cambogia c’è ragione di credere che non ci sia mai stato – ma i suoi genitori vengono da lì. Ecco, la sua vita è stata uno di quei racconti del primo tipo, perché è stata un fuoco d’artificio: ha scritto Afterparties, ma prima che il libro fosse pubblicato, So è morto di overdose a ventotto anni. Un esordio che è un testamento che è, in realtà, solo un’opera d’arte dove dentro c’è ogni cosa.

I personaggi dei suoi nove racconti sono tutti come lui: cambo nati negli Stati Uniti. Anzi, meglio: cambo che vivono a Stockton, California, «il posto perfetto per certi funzionari di governo per un manipolo di rifugiati con la sindrome da stress post-traumatico, pronti a scorreggiare via i loro sogni». Loro non hanno conosciuto il genocidio – quello di Pol Pot – ma i loro genitori, le loro Ma, le Ming, sì. Ed è un’eredità da cui non si scappa. Questi personaggi sono tutti giovani, spesso omosessuali, che si arrabattano per cercare un proprio posto del mondo. Al di là del male che hanno raccontato loro e che continua a tormentarli come una fastidiosa responsabilità.

Sì, perché c’è qualcosa di ossessionante nelle parole di morte, anche in quelle non dette. Nel primo racconto, Tre donne del Chuck’s Donuts, Tevy vede entrare ogni notte, molto tardi, lo stesso uomo nel suo negozio di ciambelle, e quando sua madre le dice che è sicuramente khmer, per lei scoprire cosa lo renda della sua stessa specie diventa un chiodo fisso. Mentre nel più metafisico Somaly Serey, Serey Somaly il passato assume le fattezze di un vero e proprio spettro reincarnato – ce lo vediamo lì, una donna vissuta durante il genocidio finita a partorire tra i campi di riso con una mano premuta sulla bocca per non farsi sentire dalle guardie del regime. Il rimbalzo – continuo e insistente – tra individualità e memoria collettiva percorre tutta la raccolta, e lì sta il senso di questo fare i conti con il passato di So.

Ma per me, tua madre, ricorda solo che, nel bene e nel male, potremmo definirci sopravvissuti. Ok? Sappi che abbiamo sempre continuato a vivere. Cos’altro potevamo fare?

Ma poi c’è tutta la vita vera, presente, di queste persone che il genocidio non l’hanno conosciuto, e ora sono disallineati rispetto al passato – loro e non loro – e rispetto alla loro terra. Perciò c’è Maly, che non capisce fino in fondo perché sua madre si sia suicidata, né perché il suo spirito dovrebbe essersi reincarnato in quella sua nipote appena nata. E c’è anche Anthony, che odia sentir parlare di spazi sicuri online per le minoranze com’è lui (cambogiano e gay) perché sono tutte delle gran cazzate, e allo stesso tempo prova il desiderio commovente e violento di trovarne uno e abbandonarcisi. E Mr Chay, che ha un’officina che sta fallendo, e che tiene duro solo perché il figlio possa fare qualcosa di più della propria vita.

Tutti loro sono soli. Eppure, esiste una connessione tra loro che fa sembrare questa raccolta una rete di sinapsi dove perdersi solo per il gusto di trovare tracce. Quelli che oggi diresti che sono degli easter eggs, indizi seminati qua e là che ti fanno dire «aspetta, questa l’ho già vista», come quando ritrovi un vecchio amico. L’Angkor Pharmacy è quella dove ti sei fermato con la moglie del dottor Heng, Tevy è la proprietaria del negozio di ciambelle vicino al Delta, Maly è la donna scorbutica che viene in casa di riposo che qualche anno prima fumava erba insieme al suo ragazzo per dimenticarsi della madre.

Alla fine, in questi Afterparties non si trova nient’altro che la vita. Una vita placida che trascorre in una cittadina californiana di provincia e che nulla ha a che fare con i grandi eventi della storia o delle storie: quelli sono già successi, la festa è finita, ora ci resta questo. Che non è poco.

Ero vissuto nell’incomprensione talmente a lungo che avevo persino smesso di vederla come una cosa sbagliata. Stava semplicemente lì, incarnata in tutte le cose che amavo

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