Qualche mese fa cercavo lavoro e a novembre mi capitò di fare un colloquio per uno studio dentistico. Ad oggi ancora non ho ben capito di cosa si trattasse il ruolo per cui mi candidai, ma fatto sta che mi trovai a parlare con il capo reparto della comunicazione interna dell’azienda.
È stato il colloquio più difficile che io abbia mai fatto: il tizio delle risorse umane aveva messo in campo tutti quei meccanismi da life coach che mirano a cogliere il tuo tipo di personalità, e di conseguenza il ruolo che finiresti per ricoprire all’interno del team di lavoro.
Tra le varie domande che mi pose, mi chiese quale fosse un personaggio famoso con cui avrei desiderato andare a cena e io, d’istinto, risposi Tennessee Williams.
«E cosa gli chiederesti?», mi disse.
Il giorno in cui conobbi Tennessee Williams faceva caldo. Io avevo appena compiuto diciotto anni e, nonostante nelle mie giornate volessi solo recitare, del teatro conoscevo giusto gli spettacoli inediti scritti ai corsi per gli adolescenti e gli adattamenti scolastici e cinematografici di Shakespeare. Non avevo idea che i copioni fossero in realtà testi contenuti in veri libri.
Conobbi zio Tennessee perché un amico in comune ci presentò. Mi disse che lui e la sua compagnia stavano mettendo in scena Un tram che si chiama desiderio, ma l’attrice che faceva Stella li aveva appena mollati. Io, che nelle mie giornate volevo solo recitare, andai a fare il provino.
Ebbi la parte, e cominciarono mesi infiniti di prove che oggi nella mia mente sono incasellati sotto l’etichetta “i due anni più dolorosi della mia adolescenza”.
Qualche tempo fa mi è capitato di assistere a una lezione di Emma Dante durante la quale lei pronunciò le seguenti parole: «le persone hanno bisogno di tornare a teatro perché hanno bisogno di riscoprire cosa sia davvero il dolore».
Mi ha sorpresa perché non ci avevo mai fatto così caso, al dolore, anche se per molto tempo l’avevo ascoltato da vicino: è una delle due forze che muovono il teatro. L’altra è la gioia, ma Tennessee Williams questa non l’ha mai fatta troppo propria. I suoi testi, o almeno quelli che più hanno avuto successo, sono puro dolore, assenza di speranza, la disillusione nichilista di chi porta in scena la complessità in modo ossessivo, a tratti sadico. È stato lui stesso a definirsi “Un maestro della disperazione e del bisogno”.
Il 25 febbraio cade l’anniversario dei 70 anni dalla morte, e io nelle mie giornate non recito più e a cena con lui non potrò mai andarci.
La sua morte è una delle più patetiche che abbia mai sentito: in camera d’albergo, per aver ingerito per sbaglio il tappo di una boccetta di collirio. Si sarebbe meritato una fine molto più dignitosa, lui stesso l’aveva immaginata e descritta nel suo testamento, ma prima ancora nelle parole di Blanche DuBois, la protagonista di Un tram che si chiama desiderio. Perché lui era i suoi personaggi femminili e in loro riversava quelle che erano le angosce della sua vita. Così la componente autobiografica, manifesta o simbolica che sia, fa sì che la finzione letteraria si confonda con lo struggimento del ricordo e che le donne di Tennessee portino in scena i suoi fedeli spettri: la solitudine e la morte.
BLANCHE (si volta con fare esitante. Lascia che la sospingano su una sedia)
Sento l'odore dell'aria di mare. Voglio passare il resto della mia vita sul mare. E quando morirò, morirò sul mare. Sapete di che cosa morirò? (Prende un acino d'uva) Un giorno, in mezzo all'oceano, morirò per aver mangiato dell'uva non lavata. Morirò... con la mano nella mano di un bel medico di bordo, uno molto giovane, con i baffetti biondi e un grande orologio d’argento. «Povera signora, - diranno, - il chinino non le è servito a niente. Quell'uva non lavata l'ha portata in cielo». (Si sentono i rintocchi della cattedrale). E sarò sepolta in mare, avvolta in un nitido sacco bianco e lasciata cadere fuori bordo... a mezzogiorno... nello splendore del sole d'estate e in un oceano blu come (altri rintocchi) gli occhi del mio primo amore.
Ma non andò così: il fratello lo fece seppellire a St. Luis, città che Tennessee detestava e dove è stato costretto a trascorrere l’eternità accanto alla madre, dalla quale per tutta la vita aveva cercato di fuggire.
Ma la morte non s’è mai data troppo la pena di completare alcunché
Prima di quel colloquio di novembre non avevo mai pensato a come sarebbe stato incontrarlo, non mi ero mai chiesta nemmeno che faccia avesse, come camminasse o che cosa mangiasse per colazione. Ma per pensare di fare una domanda a qualcuno devi averlo davanti, o almeno a mente. Così ho cercato le sue foto.
Tennessee Williams era un uomo d’aspetto normale, uno di quelli che ogni sera deve mettersi il collirio negli occhi, e che a cena non rinuncerebbe mai a un bel bicchiere di vino, dall’umorismo becero, a tratti viscido.
Nato in Mississippi nel 1911 sotto il nome di Thomas Lanier Williams, sua madre Edwina era la classica bellezza del Sud, una donna meravigliosa, figlia della fiera borghesia sudista che pateticamente resisteva agli effetti della grande depressione. Aveva una sorella, Rose, che ben presto fu diagnosticata come schizofrenica. La madre acconsentì a una lobotomia che lasciò la ragazza in stato vegetativo. Questo Thomas non lo perdonò mai, rimase crocifisso nella sua mente come un monito, un quadro dalle tinte cremisi che lo perseguitava soprattutto da sobrio.
Il nome di Tennessee lo adottò nel 1939, dopo aver vinto mille dollari per i suoi atti unici American Blues. Questi furono gli anni in cui scrisse e portò in scena i suoi maggiori successi, che fin da subito si mostrarono come testi al limite dello sconcerto: tabù, stupro, incesto, omosessualità, sordidi segreti di famiglia, cannibalismo, ninfomania. Drammi dell’incomunicabilità i cui protagonisti si dibattono in una società disumanizzante, dove l’incomprensione spinge alla rovina, al suicidio, alla follia.
Tutta la sua opera è abitata dalle anime di Rose ed Edwina: da Blanche a Alma di Estate e Fumo, fino ad arrivare ad Amanda e Laura, protagoniste de Lo zoo di vetro. Le donne di Tennessee Williams vivono un mondo esangue, esasperato, si aggrappano all’apparenza come se fosse l’unico modo per impedire alla propria gioventù di sfiorire. Figure sfibrate, diafane e folli, che abitano un sud rurale cosparso dall’infermità mentale.
BLANCHE: Non basta essere deboli. Bisogna essere deboli e attraenti
Quella di Tennessee Williams, uomo e drammaturgo, è una partita a carte, un gioco con il destino baro e crudele. Al tavolo con lui ci sono prostitute, folli, gigolò, giovani squattrinati, bestie travestite da umani, uomini e donne perduti, derelitti. Un’America dolente e spietata, dal sapore amaro e polveroso; l’oscurità della psiche che affonda nella rigidità del mondo di periferia; la pietà suscitata che genera nostalgia; la sopravvivenza, cantata come patetica, al pari della ridicola preoccupazione per una rispettabilità ormai perduta.
Quella di Tennessee Williams è la scrittura di chi è figlio di un’epoca di silenzio e depressione. Un unico e disperato lamento per un dolore nato da quell’ineluttabile declino che tutto si è portato via.
Ma cos’è davvero il dolore?
Questo chiederei io a Tennessee Williams.
Di
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