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I fantasmi della “fermezza”: 45 anni fa la strage di via Fani e il rapimento di Aldo Moro

Immagine tratta dal libro "Lettere dalla prigionia di Aldo Moro, Einaudi, 2018"

Immagine tratta dal libro "Lettere dalla prigionia di Aldo Moro, Einaudi, 2018"

A volte ritornano, come gli incubi e gli zombi. Slogan, titoli, espressioni che hanno marcato a fuoco una stagione della vita collettiva. Ritornano avulsi dal contesto e deformati, eppure ancora potenti, carichi di pathos, apparentemente definitivi, ineludibili. «Non si può cedere al ricatto», «Lo Stato non può scendere a patti con chi lo minaccia» e variazioni sul tema: quanto allo sciopero della fame dell’anarchico Alfredo Cospito contro il regime del 41 bis, la linea del governo Meloni è che lo sciopero della fame costituisce un ricatto a cui lo Stato non può cedere.

Una retorica che, come la macchina di Ritorno al futuro, vuole riportarci indietro al clima cupo del sequestro Moro. L’Italia era nel pieno dell’emergenza terroristica, e dopo la il massacro dei cinque agenti di scorta in via Fani (Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, due carabinieri e tre poliziotti) e il sequestro del presidente della Dc Aldo Moro, il 16 marzo di 45 anni fa, per 55 giorni sui giornali rimbalzò la parola d’ordine «non si cede al ricatto»: nessun riconoscimento politico, nessuna trattativa, nessuno scambio di prigionieri con le Brigate Rosse per salvare la vita dello statista.

C’è qualcosa di osceno nell’usare stesse parole e analoga veemenza in due situazioni così abissalmente diverse. E perché mai alimentare oggi un senso d’emergenza artefatto e fomentare i peggiori istinti delle aree antagoniste? (Domanda retorica: si sa che per qualunque governo potersi mettere nella posizione di vittima è politicamente assai comodo).

«A prescindere dalla motivazione della magistratura di confermare il 41 bis per Cospito, l’escalation di violenza – il riferimento è alle minacce e contestazioni provenienti dalla galassia anarchica – dimostra la bontà della scelta», è arrivato a dire il sottosegretario alla Giustizia Delmastro. Buonsenso vorrebbe che si constatasse, invece, come il piccolo mondo antagonista si muova a prescindere da comunicazioni o ordini diretti dal detenuto, quindi sarebbe un’ottima cosa non gettare benzina sul fuoco.

Oggi, peraltro, sappiamo con certezza che dopo il 16 marzo 1978, mentre in pubblico si cementa la testuggine della “linea della fermezza”, dietro le quinte si tratta eccome, per cercare di salvare la vita di Moro. Mentre partite inconfessabili e assai più efficaci, come ha magistralmente ricostruito Miguel Gotor, si giocano intorno alle carte del suo memoriale, per farne sparire le parti più scomode e compromettenti (ancor oggi abbiamo solo un testo incompleto e, soprattutto, non l’originale). Andreotti disse al Corriere che una delle vedove degli agenti di scorta aveva minacciato di darsi fuoco se il governo avesse trattato, una balla clamorosa che indignò profondamente le due donne a cui la minaccia poteva essere attribuita (gli altri tre agenti uccisi non erano sposati), che lo hanno smentito per decenni (ma l’erba cattiva non muore mai: che tristezza vederla riproposta pure in Esterno notte).

Il 16 marzo è il giorno in cui Moro comincia a morire, perché comincia la demolizione sistematica della sua figura (per togliere valore all’ostaggio e per depotenziare la pericolosità delle sue eventuali rivelazioni). Qualche voce nel deserto cercava però di ricordare Moro com’era. L’uomo della mediazione e del dialogo, strenuo sostenitore del valore supremo della vita umana. Moro professore di diritto e procedura penale che portava i suoi studenti a visitare le carceri e i manicomi criminali, per toccare con mano di cosa fosse fatta la materia che studiavano. Moro che da anni, inascoltato, invitava ad affrontare il problema dell’eversione anche in sede politica, creando spazi di ascolto anche per le istanze più radicali, per prosciugare l’area di consenso da cui attingeva reclute la lotta antisistema, come ha raccontato il suo allievo Giorgio Balzoni.

Allora, in questo 16 marzo, perché non ci lasciamo ispirare da Moro com’era? Anziché gridare al “ricatto”, potremmo leggere lo sciopero della fame di Cospito – strumento di disobbedienza civile non violenta, dopo le gravi azioni violente per cui è stato giustamente condannato – come una drammatica denuncia che costringe l’opinione pubblica e lo Stato a riflettere sulla natura e la durezza del 41 bis, che ci costringe a guardare dentro le mura delle prigioni, come faceva Moro coi suoi studenti, e a riflettere su come la democrazia possa mostrarsi più forte degli antagonisti quanto più rimane fedele ai propri valori costituzionali. Tornare, insomma, all’insegnamento di Moro, per contrastare chi abusa della retorica che fu del “caso Moro”.

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