Genocidio, una parola tornata a occupare la nostra mente e i nostri discorsi da qualche mese. Una parola che oggi divide posizioni politiche, scena artistica, palcoscenici mediatici, urlata in piazza a gran voce o censurata in televisione.
Il ricorrere di questo termine dimostra che non impariamo dai nostri errori, che i moniti restano inascoltati, che la storia non insegna. Allora diventa sempre più indispensabile ricordare cosa è successo e non disperdere la memoria dei massacri e delle guerre che hanno disseminato il Novecento, il secolo più violento della storia dell’uomo.
Domani, 6 aprile 2024, ricorrono i trenta anni dal genocidio avvenuto in Ruanda, quei famosi cento giorni di uccisioni, violenze inaudite e morti ammazzati nella maniera più brutale, da parte degli hutu più estremisti ai danni dei tutsi e degli hutu più moderati.
Già poche ore dopo l’attentato all’aereo che trasportava il Presidente del Ruanda Juvénal Habyarimana e quello del Burundi Cyprien Ntaryamira, colpiti da un missile terra-aria, la ribellione hutu ebbe inizio al grido di “seviziare e uccidere gli scarafaggi” tutsi, come riportato in diretta dalla radio estremista RTLM. Con il pretesto di uccidere gli attentatori del governo, gli hutu diedero vita a un massacro che si intensificò nei giorni successivi, fino al 19 luglio del 1994.
Si calcola che in appena tre mesi furono trucidate tra le 500 000 e il milione di vittime, tra tutsi e hutu imparentati con essi o schierati su posizioni più moderate, massacrati in maniera organizzata e capillare anche attraverso tradimenti e inganni; l’arma più economica a disposizione degli hutu fu il machete, strumento rudimentale ma comunque efficace per torturare e uccidere.
Il genocidio del 1994 si inserisce in un quadro di rivalità etniche ed eccidi di massa che fanno parte della storia del Ruanda e del Burundi già dalla fine del secolo precedente, ripetuti e mai sopiti per tutto il Novecento, coinvolgendo anche i paesi confinanti di Uganda, Congo e Tanzania.
I tutsi storicamente rappresentavano l’aristocrazia della società, erano i guerrieri, i proprietari del bestiame e gli uomini politici del paese, al contrario degli hutu, considerati inferiori e costretti ai lavori agricoli, seppur in netta maggioranza nella popolazione (si calcola che fosse composta all’80% da hutu e al 20% da tutsi). La colonizzazione prima tedesca, poi belga, della regione alimentò il divario sociale tra queste due etnie, considerate di provenienza diversa anche per i tratti somatici che avvicinavano i tutsi alla razza caucasica, rendendoli perciò superiori: è in questa situazione di sopraffazioni e credenze razziste che trovano posto i colpi di stato e le guerre civili succedutisi nel corso di tutto il secolo e culminate nell’escalation del 1994.
Il genocidio dei tutsi terminò a luglio, dopo la vittoria del Fronte Patriottico Ruandese (organizzazione armata dei tutsi formatasi negli anni ‘90) che depose il governo hutu e perseguì i responsabili. Le conseguenze furono enormi, a cominciare dalla devastazione demografica di un paese che tra massacri e diaspore ha lasciato sole migliaia e migliaia di persone.
Il ritardo della risposta occidentale fu ed è tutt’oggi considerato di gravissimo impatto, soprattutto per la velocità con cui si inasprì il conflitto; furono però in particolare le posizioni francese e belga a destare indignazione, per un mancato intervento che avrebbe potuto evitare o reprimere in tempo il genocidio.
Di
| E/O, 2024Di
| Terre di Mezzo, 2021Di
| Bollati Boringhieri, 2000Di
| EBS Print, 2019Di
| Giuntina, 2014Di
| Mondadori, 2018Di
| Infinito Edizioni, 2018Di
| E/O, 2012Di
| Il Canneto Editore, 2013Di
| Italic, 2014Di
| Terre di Mezzo, 2015Di
| Infinito Edizioni, 2016Di
| Round Robin Editrice, 2021Di
| Edizioni La Meridiana, 2008Di
| Il Pozzo di Giacobbe, 2019Ti potrebbero interessare
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