La strage della nave naufragata a poche centinaia di metri dalla costa di Steccato di Cutro, in provincia di Crotone, rappresenta l’orrore della storia che si ripete e viene continuamente rimossa.
Settanta corpi senza vita schierati dentro bare in un palazzetto dello sport, un incalcolabile numero di dispersi e alcune decine di sopravvissuti che possono raccontare l’angoscia di quelle ore passate scorgendo la terra ferma senza riuscire a raggiungerla in sicurezza.
La tragedia ha il sapore dell’inevitabile, la strage di qualcosa che, forse, si poteva prevenire, e con il passare dei giorni si inizia a ricostruire un quadro da cui emergono dubbi sull’ineluttabilità di questo naufragio.
L’allerta dell’agenzia Frontex nelle ore precedenti, le navi della Guardia di Finanza inviate per la loro competenza sul “contrasto all’immigrazione clandestina”, il mancato intervento delle motovedette della Guardia Costiera, la testimonianza di pescatori chiamati per andare a verificare se ci fossero barche in avaria. Lo strazio dei corpi recuperati, ormai senza vita, quando era ormai troppo tardi. Nonostante buona parte dell’opinione pubblica non sia rimasta indifferente a quanto accaduto, sembra quasi che, dopo ogni strage di questa portata, sia necessario ripartire da capo. Non è solo un problema di memoria ma anche, probabilmente, il tentativo di preservarsi da alcuni fatti e avvenimenti troppo dolorosi da ricordare. Il 3 ottobre saranno 10 anni da quando un barcone si rovesciò al largo di Lampedusa provocando la morte di quasi 400 persone, la maggior parte di nazionalità eritrea.
Quel naufragio fu un evento epocale, tanto da portare all’istituzione nel 2016 della Giornata della Memoria e dell’Accoglienza per ricordare e commemorare tutte le vittime dell'immigrazione e promuovere iniziative di sensibilizzazione e solidarietà. Ma, ancora prima di questo, a seguito di quella tragedia si decise di istituire la missione Mare Nostrum, la più ingente operazione di pattugliamento e salvataggio mai messa in piedi da uno stato europeo fino a quel momento. Un’operazione “militare e umanitaria”, come viene definita sul sito della Marina Militare, che in poco più di un anno ha tratto in salvo quasi 190mila persone in difficoltà nel Mediterraneo. Niente di simile c’era stato prima, niente di simile ci sarà dopo, e le persone in mare non hanno smesso di morire.
Il naufragio del 3 ottobre diede vita a un’altra grande sfida, mai immaginata fino a quel momento: la volontà di dare un nome a quei corpi, attraverso la più grande operazione di identificazione e riconoscimento effettuata a seguito di una strage di migranti. È bene specificare migranti, perché nei nostri “disastri occidentali” è una pratica che diamo per scontata. Non riterremmo possibile, né accetteremmo, che a seguito del deragliamento di un treno o di un incedente aereo non si facesse tutto il possibile per identificare ogni singola vittima e solo poi procedere alla sepoltura. Non succede così per i migranti che muoiono in mare o, quantomeno, le procedure di identificazione sono solitamente tanto complicate da averle ritenute impossibili fino a pochi anni fa.
Lo ha raccontato Cristina Cattaneo, direttrice del Labanof - laboratorio di antropologia e odontologia forense dell’università di Milano, nel suo libro Naufraghi senza volto. Cattaneo fa una riflessione che però continua a essere messa in discussione, nonostante i molti naufragi di questi anni: dalla strage di Lampedusa del 2013 «si iniziò, seppur molto lentamente, a pensare ai loro morti come ai nostri».
L’indifferenza verso quei cadaveri - il parziale conto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazione ci dice che quasi 45mila persone hanno perso la vita nel Mediterraneo dal 2001 a oggi - non è dissimile all’indifferenza nei confronti dei vivi. Dalla retorica sui “taxi del mare”, ai decreti legge per arrestare l’operatività delle ONG del soccorso, fino ai giudizi morali di questi giorni rappresentati dalle parole del Ministro dell’Interno: «la disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli».
Di fronte a pensieri e azioni tanto raggelanti, e nel tentativo di contrastarli, viene voglia di andare ancora più indietro, ancora più a fondo, e la memoria arriva fino al 28 marzo del 1997, quando la nave Katër i Radës viene speronata dalla corvetta Sibilla della Marina Militare italiana, nel tentativo di impedire che raggiunga la costa di Otranto. Moltissime donne e bambini, 81 corpi recuperati, un numero mai accertato di dispersi e 34 sopravvissuti. Lo ha raccontato Alessandro Leogrande nel suo Il naufragio e nel 2011, anno di uscita del libro, scriveva così: «Il naufragio della Katër i Radës costituisce una pietra di paragone per tutti gli altri naufragi a venire, non solo perché è stato l'esito delle politiche di respingimento e dell'isteria istituzionale che le ha prodotte. Non solo perché i termini della questione oggi sono i medesimi. Non solo perché, con totale cinismo o somma indifferenza, una forza politica di governo continua a parlare di blocchi navali nel Mediterraneo. Il naufragio della Katër i Radës è una pietra di paragone, perché, a differenza dei molti altri avvolti nel silenzio, è possibile raccontarlo.»
Le parole di Leogrande mancano più che mai, ed è doloroso constatare che avrebbe potuto scriverle, identiche, in decine di occasioni in questi anni. Possiamo rileggere le ricostruzioni e le testimonianze, ricordare una a una queste stragi silenziose, ma non c’è più la benché minima scusante per questa colpevole e consapevole crudeltà.
Di
| Rizzoli, 2019Di
| Raffaello Cortina Editore, 2018Di
| Feltrinelli, 2011Di
| Feltrinelli, 2018Di
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