Sono spesso accusato di concentrarmi sul lato repellente della vita, in realtà penso di essere un sentimentale
Come spesso accade per le etichette letterarie, a lui ne avevano affibbiata una che gli calzava e al contempo lo teneva distante. I libri di Martin Amis, si diceva, e si dice tutt’ora, sono sgradevoli, danno origine a una letteratura che è inquietante e respingente. Ma, per lui, morto il 19 maggio all’età di 73 anni, nella sua casa in Florida, quel che raccontava era, molto semplicemente, la realtà. C’erano, diceva, molte più cose sgradevoli scritte nei tabloid e nelle cronache: lui si limitava, come un moderno Flaubert, a osservare – un flâneur che si aggirava tra sex shop, periferie degradate, umanità vasta e decadente.
Sgradevole ma non nei fatti, si potrebbe dire, disturbante come solo un grande scrittore può essere ma come in pochi hanno saputo, in effetti, essere. La sua inquietudine, la sua capacità di mettere in tensione il mondo con le sue contraddizioni, passava – lo si vede bene nel suo capolavoro più famoso, Money – non per una trama aggrovigliata, macabra o scabrosa, ma per quello che in Italia chiamiamo lingua, e nei Paesi anglosassoni è voice. I suoi libri non hanno trame (anche se, su questo, si potrebbe discutere), non è tutto schiacciato sul «viaggio dell’eroe», ma casomai risuonano nella voce, nello stile di un autore che si è reso inconfondibile.
Si ispirava, per questo, a due maestri della letteratura, i suoi Twin Peaks: Nabokov, per la letterarietà, e Saul Bellow per quel suo atteggiamento sempre ironico, molto british, capace di non prendersi mai troppo sul serio. E molto britannico era anche il suo approccio alle cose, che erano basse, nella realtà, e che attraverso la sua lingua si elevavano, diventavano a tutti gli effetti materiale per un libro di letteratura, entravano a diritto nel canone di ciò di cui si può parlare.
Era figlio d’arte, questo va detto. Ma è anche giusto inserire quest’informazione in coda, perché è uno dei rari casi in cui le due figure – enormi, ingombranti – hanno assunto nel tempo una propria autonomia, tanto da far risultare superfluo e posticcio definire l’uno o l’altro come figlio di o padre di. Sia Martin sia Kingsley Amis sono stati inseriti in quei listoni dei quotidiani britannici tra gli autori da leggere almeno una volta nella vita. Come classici. Tra padre e figlio non ha sempre corso buon sangue, per ragioni politiche e letterarie. E mentre Kingsley è stato il pupillo del Regno Unito, insignito del titolo di baronetto dalla regina stessa, Martin è fuggito oltreoceano, dove infine se n’è andato.
Forse la nuova sgradevolezza di cui scriveva era diventata troppa, o forse ne stava inseguendo una ancora più nuova, più disturbante. Il 23 maggio esce per Einaudi il nuovo libro, La storia da dentro: scopriremo lì, tra le sue pagine e la sua voce, la risposta.
Il protagonista di questa bruciante confessione non può proprio definirsi un eroe: è un uomo istintivo e violento, che durante la Seconda Guerra Mondiale "si è fatto strada in quella che sarebbe stata chiamata Germania Est a suon di stupri", ma allo stesso tempo è un individuo capace di grandi slanci emotivi e dotato di una sensibilità che può solo definirsi "tipicamente russa".
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