Il 2023 non è ancora finito e già il nostro territorio ha collezionato una serie di eventi atmosferici estremi disastrosi, dalle alluvioni in Emilia Romagna a maggio alle più recenti in Toscana, passando per il caldo estremo in Sicilia e il nubifragio e le esondazioni in Lombardia. Sono fenomeni che stanno aumentando in frequenza e intensità e, nonostante ci si accanisca a parlare solo di “ondate di maltempo”, questo accade come conseguenza della crisi climatica. Secondo la scienza del clima, ci sono due fronti su cui agire di fronte all’emergenza climatica: la mitigazione (azzerare le emissioni di gas serra che causano la crisi) e l’adattamento (adottare misure e comportamenti per limitare i danni che gli effetti della crisi portano a persone e territori).
A chi negli ultimi anni ha tenuto un occhio vigile anche sul contesto internazionale è chiaro che siamo in netto ritardo con la mitigazione del cambiamento climatico. Ma alla luce di ciò che è accaduto quest’anno, è difficile anche per chi non ha interesse a guardare fuori dai confini nazionali negare che l’Italia ha anche un gigantesco problema di adattamento. Il nostro Paese non sarà minimamente pronto ad affrontare ciò che verrà se non risolverà i problemi del consumo di suolo, del dissesto idrogeologico causato dalle attività umane e degli squilibri causati dalle continue modifiche che noi abbiamo portato ai territori. E le conseguenze colpiranno sempre prima chi i territori li abita e li cura. Per provare a comprendere cosa dovremmo fare per invertire la rotta, prendiamo in esame due esempi di disastri che in passato hanno devastato il nostro territorio: la tempesta Vaia nel 2018 e il disastro del Vajont nel 1963.
La tempesta di Vaia (in realtà un uragano) ha colpito in particolare il Triveneto e la Liguria a fine Ottobre 2018. Laddove gli effetti dell’uragano si sono riversati sui centri urbani si sono creati i problemi e i disagi dovuti al consumo di suolo, al dissesto idrogeologico e alla bassa preparazione a questi eventi. L’esempio da prendere in considerazione in questo caso però è il disastro naturale causato dallo scirocco nel Triveneto, dove sono stati devastati più di 40 mila ettari di foreste di conifere. Nonostante si sia abbattuta sulle foreste, la gestione e la protezione delle foreste entra in gioco nella prevenzione di altri episodi simili. La crisi climatica gioca e giocherà sempre di più un ruolo rilevante nella frequenza e intensità di questi eventi. Proteggere le foreste vuol dire anche creare lavoro e curare il territorio in profondità.
Un altro esempio di disastro è la tragedia del Vajont. In questo caso è abbastanza appurato che si tratti di un disastro causato nella sua interezza dalla hybris di poche persone che hanno preferito il profitto che si sarebbe ottenuto da una diga per l’energia idroelettrica alla sicurezza del territorio e dei suoi abitanti, ignorando le loro rimostranze e i rischi dell’opera. In molti racconti, anche da parte di stampa e telegiornali nazionali, si parla di crollo della diga, quindi è necessario sempre specificare che la diga è ancora lì; sono invece stati distrutti quartieri e paesi, tra cui il comune di Longarone (provincia di Belluno) e spazzate via le vite di quasi 2000 persone. La sera del 9 ottobre 1963 una frana del Monte Toc cadde nel poderoso bacino idroelettrico artificiale del torrente Vajont, provocando tre ondate di acqua per un totale di 25 milioni di metri cubi e uno spostamento di aria dalle conseguenze fatali per gli abitanti della valle. L’occultazione del rischio idrogeologico da parte della società che gestiva il progetto (SADE) rende il disastro del Vajont emblematico quando parliamo di come il consumo di suolo e lo sfruttamento del territorio in nome del profitto rendano tragiche le conseguenze degli eventi atmosferici estremi.
Cosa c’entrano questi due esempi con le inondazioni che abbiamo vissuto nell’anno passato? Il caso di Vaja ci dice che i territori vanno curati e protetti. Tutelarli vuol dire affrontare la crisi climatica per evitare che gli eventi atmosferici estremi diventino sempre più imprevedibili e devastanti, ma anche gestirli in modo saggio e dal basso, con la popolazione locale al timone. Il caso del Vajont invece ci spiega che la nostra ingerenza nell’ambiente mette in pericolo sia noi, sia l’ambiente stesso e che costruire continuamente e indiscriminatamente ci espone a conseguenze fatali – che solitamente colpiscono soprattutto le persone più vulnerabili.
Torniamo al presente. Dopo le alluvioni in Emilia Romagna si è parlato tanto di dissesto idrogeologico e consumo di suolo, ma nonostante ciò il governo ha comunque tagliato i progetti del PNRR per ridurre il rischio alluvioni e mancano ancora molti dei fondi promessi per far fronte ai danni dell’alluvione. Il caso forse meno grave, ma sempre più preoccupante, del Seveso a Milano ci racconta ancora meglio come la crisi climatica si lega al consumo di suolo nella creazione di disagi e disastri.
Il torrente Seveso, che ha origine in provincia di Como e sfocia nel Naviglio della Martesana a Milano, è esondato 118 volte in 48 anni. Con l’aumento delle piogge estreme il fenomeno non fa altro che aumentare e ripetersi. Il flusso del fiume è pieno di restringimenti e attraversamenti e, nella tratta finale, è tombato. La conseguenza è che non può sostenere flussi di volume maggiore. L’interramento del fiume è discontinuo e mal progettato. Sopra il fiume sono costruiti interi quartieri, con le colate di cemento continue tipiche della Lombardia, che secondo l’Ispra è la regione più cementificata d’Italia. Tra i quartieri soggetti alle esondazioni del Seveso c’è anche Niguarda, dove si trova uno dei più grandi poli ospedalieri di Milano. E’ già capitato che le strade attorno all’ospedale venissero allagate diventando impraticabili. L’allagamento di un ospedale comporta grandi rischi per la salute delle persone più vulnerabili ricoverate. C’è da aggiungere che le conseguenze delle alluvioni sulla salute sono tantissime, dalle muffe tossiche alla diffusione di malattie, senza considerare la possibilità di annegamento.
E’ innegabile che ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza, per cui non vengono stanziati abbastanza fondi. La soluzione trovata dal Comune di Milano e dalla Regione Lombardia sono le vasche di laminazione, serbatoi impermeabili delle acque piovane. Per costruirne solo una a Bresso sono stati disboscati 4 ettari di alberi e ad oggi la vasca non è ancora pronta. E’ in atto un continuo braccio di ferro tra Regione e Comune sulle responsabilità degli allagamenti, senza che però si consideri il problema di fondo: con le piogge che aumentano, le vasche rischiano di non bastare. Legambiente Lombardia ha affermato che la vasca, con un invaso di 250mila metri cubi di acqua, si sarebbe comunque riempita nel giro di un’ora.
Il caso del Seveso ci dimostra ancora una volta come la crisi climatica non venga affrontata in maniera completa e strutturale, lavorando su mitigazione e adattamento e ripensando completamente le città. Si rincorrono i danni con dei palliativi, senza studiare soluzioni più profonde e concrete. Manca la tutela del territorio, una lezione che chi è al potere non ha imparato dalla tempesta Vaia, e si continua a costruire imperterriti, un’altra lezione che il Vajont dovrebbe aver insegnato, con costi in vite umane altissimi, a chi invece continua a consumare suolo.
Viene da chiedersi se ciò derivi da una confusione di fronte alle conseguenze della crisi climatica o dalla stessa hybris della SADE. Nessuna delle due prospettive è rassicurante.
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