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Beni comuni e transizione ecologica

La proprietà per come la conosciamo è un diritto esclusivo, che signoreggia la cosa (utendi et abutendi, fino a poterla distruggere) e che esclude da essa ogni altrui potere. Questo è l’unico modello che conosciamo quotidianamente per rapportarci con le cose: un'appartenenza esclusiva, talvolta condivisa, ma mediante identica struttura, con qualche altro amico, parente o vicino non scelto, attraverso quelle forme così foriere di discordia che chiamiamo comunione e condominio. Ci sono però due corollari che possono, a un primo sguardo, sfuggire. Anzitutto che tale modello è relativamente recente e storicamente relativo, nonostante l’ideologica naturalizzazione che ne è stata fatta dalla cosiddetta narrazione proprietaria. Nasce con la modernità giuridica il paradigma dell’individualismo proprietario (pur certo radicato nel dominium di diritto romano) che impregna di sé l'universo dei nostri beni e, purtroppo e inevitabilmente, delle nostre vite.

In secondo luogo, tale modello proprietario appartiene anche alla dimensione pubblica: la proprietà pubblica altro non è che l’estensione di tale forma di appropriazione esclusiva di un bene ad un “ordinamento a fini generali” come lo Stato. Pubblico e privato quindi, per quanto attiene al regime proprietario, quasi (ma è importante non dimenticare questo quasi per escludere qualunque equidistanza) sovrapponibili. Non resta allora che ricercare in un territorio inesplorato che si collochi oltre i due poli già citati (per richiamare il titolo di un bel volume curato da Maria Rosaria Marella): quello dei beni comuni.

Beni comuni. Piccola guida di resistenza e proposta

Che cosa sono i beni comuni? Prova a spiegarcelo Ugo Mattei in questo breve saggio. Quando sono nati i beni comuni? Qual è la situazione attuale in Italia e nel mondo? Perchè bisogna difenderli? Che rapporto c'è tra i beni comuni e l'ambiente? In che modo metterli al centro dell'agenda politica?

Lungo un canale isolato e parallelo a quello dello sviluppo dell’individualismo proprietario però, un riflesso degli assetti collettivi pre-moderni, a lungo studiati in Italia da Paolo Grossi, ha resistito contro le istituzioni di uno Stato architetto che intendeva ad ogni costo liquidarli. Parliamo di qualcosa di diverso, per molti motivi, dai beni comuni, ma che come essi rappresenta un’alternativa al monismo proprietario. Un insieme fatto di comunanze, compascoli, domini collettivi, servitù di pascolo, usi civici, tra cui erbatico, legnatico, macchiatico (il diritto di tagliare macchie e arbusti) e via dicendo: un variegato insieme di formazioni collettive “spesso grondanti della fangosità dei fatti locali”.

L’evidente retaggio di un mondo troppo lontano per essere tollerato dalla ferma volontà della modernità giuridica di affermare un unico modello proprietario: gravami della libera proprietà, come venivano definiti; “quasi delle cellule tumorali che dissanguavano le limpide attuazioni della appartenenza individuale”, per dirla con Paolo Grossi. “Un altro modo di possedere” che destabilizzava lo Stato monoclasse ottocentesco e il suo monismo culturale ed economico, ma che allo stesso tempo, pur spesso isolato in valli e boschi montani, è riuscito a conservare un legame tra le cose e la comunità cui esse sono utili e funzionali: ha mantenuto al centro la relazione e il valore d’uso del bene in questione, piuttosto che il suo valore e le sue caratteristiche economiche, una dimensione qualitativa contro una dimensione quantitativa, l’essere contro l’avere.

Ma cosa sono davvero i beni comuni? Come si lega questo “altro modo di possedere” collettivamente a una dimensione ecologica del diritto e alla transizione ecologica e, in particolare, energetica?

Per definire sommariamente i beni comuni (e si guardi anche al tentativo fatto dalla commissione presieduta da Stefano Rodotà nel 2007, istituita per approntare un disegno di legge di modifica della disciplina codicistica dei beni pubblici) si deve partire dal mettere in luce che la loro appartenenza collettiva, che può risolversi sia in una gestione pubblica che privata, trova fondamento nel ruolo indispensabile da essi svolto per rendere effettivi diritti fondamentali e garantire il libero sviluppo della persona umana.

É la funzione svolta da un bene, più che il suo crudo valore economico, ad imporgli questo tipo di classificazione. La sua capacità di soddisfare i bisogni della comunità più che di essere signoreggiata da un singolo proprietario persona fisica o da una finzione, come la persona giuridica (certi tipi di società, per intendersi) che sempre sono state pensate e costruite per agire allo stesso modo di un singolo individuo. Quello che i beni comuni cercano di ridisegnare è il panorama proprietario che ci è stato lasciato dalla trionfante rivoluzione borghese, prima in Francia e poi nel resto d’Europa, perfino vincendo le resistenze di un socialismo conservatore della Germania ottocentesca, che preferiva guardare alla dimensione collettiva e comunitarista di un romanticizzato e idealizzato Medioevo. Passando per le enclosures inglesi, già condannate in celebri passi nell’Utopia di Tommaso Moro, e in generale per l’appropriazione del comune che si protrae anche fino all’800, che emerge, ad esempio, da pagine come quelle dei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna di un giovane Karl Marx.

Ed è proprio su questo complesso rapporto tra uomo e cosa prima accennato che si apprezza il potenziale ecologico della riespansione dei beni comuni. E’ infatti nella dimensione reicentrica (che mette al centro le cose) tipica del modello di proprietà collettiva che si può attuare quel necessario superamento dell’antropocentrismo insito nell’individualismo proprietario: che si riduce a vedere nella cosa “soltanto la naturale proiezione dei poteri assoluti del proprietario” (ancora Grossi), tanto assoluti da potersi perfino, a buon diritto, risolversi nella più antieconomica ed antiecologica delle condotte, come abbiamo visto in apertura: la distruzione o il non uso del bene.

Invece uno statuto dei beni comuni mette al centro la durata delle cose, la loro capacità (da preservare sopra ogni interesse individuale) di garantire servizi ecosistemici, la necessità di farle durare, di preservarle nell’interesse delle generazioni future.

Comunità energetiche e beni comuni

Le comunità energetiche rinnovabili, per riprendere la traiettoria appena accennata, possono costituire un esempio di gestione collettiva di un servizio pubblico essenziale, sottraendolo ad una gestione accentrata, pubblica o privata che sia, e consentendo così la riespansione di uno spazio ineliminabile di democrazia.

Si tratta del tentativo di attuare quel “decentramento del potere a favore di piccole comunità in armonia con le leggi dell’ecologia” richiamato da Ugo Mattei e Fritjof Capra in un bel saggio in cui argomentano sulla necessità di un’ecologia del diritto, che passa anche da una riscoperta dei beni comuni.

Consumatori che diventano anche produttori e che possono, secondo gli ultimi interventi normativi (d.lgs. 199/2021), diventare anche sub-concessionari della rete. Soggetti collettivi che possono realizzare finalità di interesse generale, in forme giuridiche diverse, che vanno dalla cooperativa all’ente del terzo settore, con il fondamentale limite che i profitti finanziari non possono costituire lo scopo principale della comunità. Uno spazio, quello aperto dalle comunità energetiche, che secondo vari interpreti può rappresentare la tanto attesa attuazione dell’art. 43 della Costituzione, uno tra i pochi in cui i Costituenti avevano lasciato un barlume incerto dell’alternativa collettiva all’individualismo proprietario. In esso si rinviene la possibilità di riservare o trasferire, a fini di utilità generale, “a comunità di lavoratori o di utenti” la gestione di un servizio pubblico essenziale, energia compresa.

Pare convincente veder rientrare in questo schema l’esperienza, che auspichiamo fiorisca sempre più rapidamente e rettamente, delle comunità energetiche: un esempio di transizione dal basso che passa dalla gestione attraverso il pubblico di un servizio pubblico essenziale, per riappropriarsi della gestione collettiva di un bene comune come l’energia, per rendere tale bene accessibile a tutti, a tariffe ridotte e riducendo emissioni e consumi, che è molto più facile da fare a livello di comunità e attraverso impianti di produzione rinnovabile diffusi.

Tocqueville, in un testo del 1847 spesso citato, lucidamente preannunciava che “è tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono che verrà a prodursi un giorno la lotta politica; il grande campo di battaglia sarà la proprietà [...]”. Non abbiamo forse mai potuto dargli torto, e oggi su quella faglia sdrucciolevole degli assetti proprietari si muove anche il futuro della transizione ecologica ed energetica: che non è un destino già scritto ma che è ancora in gran parte nelle nostre mani.

 

Per approfondire

I beni comuni. L'inaspettata rinascita degli usi collettivi

Di Stefano Rodotà | La Scuola di Pitagora, 2018

Il bene comune della Terra

Di Vandana Shiva | Feltrinelli, 2015

Beni comuni. Un manifesto

Di Ugo Mattei | Laterza, 2011

Beni comuni. Piccola guida di resistenza e proposta

Di Ugo Mattei | Marotta e Cafiero, 2020

Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni

Di Fritjof CapraUgo Mattei | Aboca Edizioni, 2017

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