Non ci sono, per la dissoluzione della Democrazia Cristiana, scene forti, ormai iconiche, ad avere passato la selezione ai “provini” della Storia. L’equivalente del lancio delle monetine su Craxi all’Hotel Raphael o delle lacrime di Occhetto a Rimini durante il XX congresso nazionale del PCI del 1991.
Il partito che aveva tenuto le redini del governo italiano per un cinquantennio si spegne all’Eur, nel palazzo dei congressi, il 26 luglio 1993. Si chiude così, con una spaccatura definitiva oltre la quale Mino Martinazzoli, ex sindaco di Brescia e ultimo segretario della DC, decreta la fondazione del Partito Popolare Italiano – in piena ispirazione sturziana – mentre da una costola più conservatrice si va costituendo il Centro Cristiano Democratico.
Sono passati trent’anni da quel fatidico annuncio. Era il momento di passaggio dalle ceneri della Prima alla Seconda Repubblica, dopo la pioggia di inchieste giudiziarie di mani pulite.
Ad aprile 1992, alle elezioni politiche, la Democrazia Cristiana, allora guidata da Arnaldo Forlani, era scesa al 29.7 per cento di voti, per la prima volta sotto il 30%, ossia con circa un milione e mezzo di voti in meno. Il 22 giugno il Corriere della Sera titolava: «L’Italia che cambia: il punto più basso toccato negli ultimi quarant’anni. Per la DC è una nuova Caporetto».
Il più grande partito italiano del dopoguerra declinato in dodici parole chiave che ne definiscono l'anima. Il ritratto impietosamente obiettivo, ma non privo di affetto della Democrazia Cristiana, il partito in cui l'autore ha militato da dirigente fino alla fine.
È storia nota: il crepaccio che attraversa gli anni novanta si apre nel febbraio 1992 con lo scandalo di Tangentopoli, la punta dell’iceberg di fitte trame di corruzione partitica e finanziaria. L’inchiesta mani pulite cade dentro l’orizzonte di risanamento economico imposto dal trattato di Maastricht, con la svalutazione della lira e la sua uscita dal Sistema monetario europeo. Quello stesso anno, le stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio scolpiscono ulteriormente nella nostra memoria storica la profondità della crisi in corso.
Dal punto di vista sociale, lo scandalo della corruzione dei principali partiti italiani radicalizza il trend della disaffezione dai metodi tradizionali di engagement politico. I grandi partiti di massa perdono definitivamente appeal mentre ampi settori della società civile, specie nelle grandi città cadute nell’orbita dell’inchiesta (Milano, Roma e Napoli), si compattano attorno all'autorappresentazione di componente “sana” di un sistema corrotto e marcio dove rapidamente iniziano ad accamparsi nuove formazioni partitiche, nuove scelte di voto e sensibilità (la Lega Nord prima, poi Forza Italia, ma anche i radicali e le liste verdi).
Anche la Democrazia Cristiana cade nel mirino: nel marzo 1993 arriva per Andreotti l’accusa di concorso in associazione di stampo mafioso; poco dopo Antonio Gava viene accusato dai giudici napoletani di voto di scambio mentre Forlani, ex segretario, viene accusato di violazione della legge sul finanziamento ai partiti.
Fondata nel 1942 dalle ceneri del partito popolare di don Sturzo, nella fase di transizione al postfascismo, la Democrazia Cristiana si è stagliata per decenni imponente come una diga contro “l’avanzata del comunismo” in Italia. Lo scenario di un mondo diviso per zone d’influenza legittimava il partito di governo ad autorappresentarsi come “Garante della normalità democratica del Paese” e argine della radicalizzazione.
L’operato dei governi a guida democristiana nel corso dei decenni si intreccia, per forza di cose, ad alcune delle più irrisolte e divisive pagine della storia dell’Italia repubblicana.
Durante gli anni del centrismo – in particolare durante il governo Fanfani tra il febbraio 1962 e il maggio 1963 – si addensano le principali grandi riforme: dalla scuola media unificata, alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, ai piani per l’edilizia economica e popolare. Aspirazioni riformatrici nate in seno a un partito composito come la DC, che di conseguenza coesistevano con orizzonti mentali e spinte di stampo conservatore. Lo storico Guido Crainz definisce questa fase dei governi centristi «una grande occasione mancata» sottolineando la serie di freni più o meno sotterranei e carsici che agivano su ampie componenti della società e settori degli apparati statali.
Era l’inizio della cosiddetta strategia della tensione, che trovava una rappresentazione iconica nelle stragi di piazza Fontana, Brescia e dell’Italicus.
In questo quadro non stupisce lo stile caustico della rivista satirica Ca Balà quando titolava «Un governo efficiente è quello che mette le bombe e poi le scopre». In copertina un ordigno stilizzato col volto coperto da una maschera di carnevale. Siamo nel febbraio del 1978 e non manca molto al rapimento di Aldo Moro.
Poi, oltre lo spartiacque degli anni settanta la nuova stagione di radicali mutazioni, gli anni ottanta della classe operaia ridotta in briciole, del riflusso nell’individualismo e del disincanto.
Nel 1988, Giulio Andreotti è ospite su Rai 1 nel programma satirico Biberon. Pippo Franco lo incalza con alcune battute sul suo conto: «Non parliamo dei segreti del mio successo, sarebbe meglio parlare del successo dei miei segreti».
Il pubblico ride, anche Andreotti. Poi risponde: «Ma, vede, forse che qualcuno la pensi così può essere anche utile, per fare un po’ meno di carognate. Una cosa che non mi piace è quando si dice che uno ha gli scheletri nell’armadio. Insomma io, per la verità, ho avuto molte vocazioni, molte aspirazioni e ce le ho ancora, ma di fare l’impresario di pompe funebri proprio non ce l’ho».
In quella riunione del 26 luglio 1993 finiva l’esperienza del principale partito di governo che proprio in virtù della sua natura polimorfa era riuscito a governare il paese per cinquant’anni nel mezzo degli accesi contrasti della Prima Repubblica, per usare un’immagine di Leonardo Sciascia, con «le spole che passavano da una mano all’altra» nelle trame tessute dal potere politico.
Trent'anni fa una serie di eventi cambiò l'Italia. Si va dalle stragi di mafia di Falcone e Borsellino all'esplosione di Mani pulite, con l'elezione di Scalfaro a presidente in un momento drammatico della Repubblica. Uno storico rivela gli intrecci inquietanti del 1992 con una serie di domande ancora attuali.
Di
| De Luca Editori d'Arte, 2018Di
| La Scuola di Pitagora, 2022Di
| Guerini e Associati, 2002Di
| Sellerio Editore Palermo, 2019Di
| Interlinea, 2022Ti potrebbero interessare
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