Viviamo in un tempo di crisi e contraddizioni. In un presente tanto pervaso da guerre, violenza, pandemie, disastri naturali, razzismi, crescenti diseguaglianze e tensioni sociali, la società ha più che mai bisogno di cambiamenti sistemici e strutturali che siano in grado di portare a una profonda trasformazione verso uno sviluppo sostenibile a livello planetario.
Questi cambiamenti devono avvenire in molteplici sfere della nostra esistenza: dalla produzione, ai consumi, all’alimentazione, agli stili di vita, agli spazi che abitiamo e al nostro modo di pensare. Pensare in modo ecologico deve diventare la nuova forma mentis del nostro tempo e del nostro futuro. E deve pervadere le strutture della nostra vita su questa terra che abbiamo portato alla soglia della catastrofe ambientale.
Non si tratta paradossalmente di auspicare un ritorno al passato ma di comprendere a fondo che abbiamo trattato la natura come qualcosa di cui potevamo abusare a nostro piacimento. Soltanto adesso che capitalismo e consumismo stanno rischiando di portarci sull’orlo di una catastrofe climatica, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa del pianeta, ci siamo resi conto di aver alienato e di esserci alienati dalla natura, dagli spazi che abitiamo e da noi stessi. Abbiamo devastato spazi naturali per poi reinventarne altri quasi di «plastica», senza un’anima in cui andare a rifugiarci. Abbiamo creato parchi dei divertimenti, spazi pubblici, centri commerciali, periferie urbane e metropoli in cui la natura è stata asservita ai nostri bisogni. Siamo in grado di andare oltre questi processi dissipativi e questa relazione estrattiva, aggressiva e quasi mascolina verso la natura e gli spazi che ci circondano? Saremo in grado di scoprirne un’altra molto più “debole”, femminile, basata sulla coesistenza con altri esseri, senzienti e non?
Il punto fondamentale sta nel chiedersi in quale mondo futuro vogliamo vivere e comprendere che siamo tutti parte dello stesso ecosistema che deve cambiare e ognuno di noi deve partecipare individualmente a questo cambiamento seguendo una logica cooperativa, perché a essere in ballo sono la stessa sopravvivenza umana e quella del pianeta. Una cosa che ripeto spesso agli studenti del mio corso sulle scienze umane per l’ambiente che mi guardano con occhi pieni di ansia, chiedendomi di dargli delle risposte, è che i grandi cambiamenti sistemici cominciano sempre dalle piccole cose e dalle azioni coraggiose di individui che hanno il coraggio di sfidare lo status quo e immaginare un mondo migliore.
Le nostre azioni hanno sempre il potere di causare delle reazioni a catena in modi a noi spesso ignoti e imprevedibili, passando da un’azione insignificante a un evento epocale e dimostrandoci come siamo tutti profondamente connessi, anche se viviamo credendo di non esserlo. Come scriveva la scrittrice Toni Morrison, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 1993:
Non c’è tempo per la disperazione, non c’è posto per l’autocommiserazione, non c’è bisogno di silenzio, non c’è spazio per la paura. Parliamo, scriviamo, facciamo linguaggio. È così che le civiltà guariscono
Per divenire azione, un’idea ha bisogno di essere articolata in un linguaggio che vada oltre i paradigmi esistenti, quelli che vengono considerati erroneamente come universali, includendo invece prospettive subalterne che spesso vengono dimenticate o semplicemente ignorate e non incluse nelle narrazioni dominanti sull’ambiente e sulla società. Ed è tramite queste prospettive altre che possiamo attirare l’attenzione sull’imminente annientamento ambientale (e biologico), mettendo in discussione i sistemi coloniali, capitalisti e patriarcali che producono questa situazione.
Si tratta di dare linguaggio a un intero immaginario che è stato emarginato e che vogliamo rivendicare perché ci rendiamo conto che queste prospettive non sono invisibili di per sé. Sono invisibili perché sono state rese invisibili. Ciò si verifica quando l’ingiustizia viene normalizzata dal nostro modo di pensare e dai nostri stili di vita come qualcosa che è un dato di fatto e non c’è nulla che possiamo fare per cambiarla. Bisogna invece trovare parole e azioni che possano aiutarci a costruire un ponte per immaginare e costruire società più democratiche, giuste e non imperiali/coloniali.
Se pensiamo alla storia delle violenze ambientali e delle problematiche sull’ambientalismo, anche negli spazi più terribili che sembrano impossibili da cambiare c’è sempre la possibilità di rivendicare uno spazio di resilienza e di partecipazione collettiva. La resilienza si traduce nella capacità di sapersi adattare e saper agire per trovare un equilibrio in momenti di cambiamento sia epocale che personale. La resilienza è anche nel comprendere che il nostro vivere non è uno stato passivo ma ha una sua politicità intrinseca che si traduce in azione.
Il poeta Robert Frost scrisse che «la migliore via d’uscita è sempre attraverso» e il maestro Zen Thich Nhat Hanh disse che «la via d’uscita è dentro». Ciò che entrambi sostengono è che spesso cerchiamo di evitare ciò che dovremmo affrontare. Non sto cercando di romanticizzare la questione in alcun modo ma di dire che fondamentalmente il nucleo di una soluzione per un’ecologia o un ambientalismo, per così dire decoloniale, si trova nello stesso spazio della crisi dove non ci aspetteremmo di trovare le risposte per un’ecologia o un ambientalismo decoloniali.
Cambiamenti climatici devastanti, specie animali estinte, ecosistemi perduti: la vita sulla Terra è ogni giorno più a rischio per colpa dei terribili errori commessi da noi esseri umani, e modificare le nostre abitudini si fa sempre più urgente. In questo appello appassionato e straordinariamente attuale, Thich Nhat Hanh ci mostra, con la calma fermezza che contraddistingue il suo pensiero, i passi concreti da compiere per mettere in atto quella necessaria rivoluzione spirituale in grado di guarire il nostro pianeta.
Questo processo di trasformazione decoloniale non include solo una revisione del modo in cui pensiamo il mondo, al di là delle strutture binarie di pensiero, ma si estende anche alla riappropriazione degli spazi pubblici da parte dei cittadini a cui deve essere data la possibilità di appartenervi in modo equo. Parlare di sostenibilità significa parlare anche e soprattutto di qualità della vita e la qualità della vita ha anche una connotazione territoriale. Si traduce nell’assicurare condizioni di accesso equo e non discriminatorio a mezzi di trasporto, ad alloggi a prezzi accessibili, a opzioni di acquisto di alimenti nutrienti e via dicendo a tutti.
Molte delle legislature che riguardano l’ambiente sono in genere implementate senza una reale attenzione alle problematiche della giustizia ambientale creando quello che l’urbanista Julian Agyeman definisce il «deficit dell’uguaglianza» nelle pratiche ambientali. Per esempio, molto spesso ci sono delle conseguenze non volute nell’applicazione di regolamentazioni industriali che alla fine tendono a colpire le comunità che sono più marginalizzate. Una prova eclatante di questa considerazione è il fatto che, soprattutto negli Stati Uniti, è il numero di codice postale a determinare la longevità della vita dei cittadini. Nel senso che se si risiede in una zona considerata privilegiata, secondo le categorie stabilite degli agenti immobiliari, si ha più probabilità di allungare la propria vita perché non si vive in mezzo a un cosiddetto food desert o a rifiuti tossici e quant’altro. Questa distinzione ovviamente si può estendere a tutte le comunità urbane del mondo ma sembra molto più accentuata negli Stati Uniti dove esiste una sorta di segregazione ambientale che venne pianificata a tavolino dagli urbanisti. La pratica discriminatoria razziale che dagli anni ‘60 classifica certi quartieri come pericolosi e non degni di essere abitati per via della concentrazione etnica dei loro residenti si chiama redlining e queste suddette aree sono discriminate perché spesso abitate dai cittadini di colore con un reddito minimo. Queste mappature di aree e individui, organizzate in base a una classificazione dei loro rischi potenziali, chiaramente riflettono un principio base di divisione sia sociale che geografica. Le città ne divengono referenti immaginari e spaziali che rivelano luoghi di conflitto o di partecipazione.
Passeggiando da buona, irriducibile flâneuse dovunque posso farlo dove vivo, mi chiedo spesso dove sia finita l’anima degli spazi urbani in questo paese. Sono pianificati per i cittadini o solo per gli uffici e per i negozi? Sono pensati come spazi dell’abitare o come spazi della produzione e del consumo? Purtroppo, di solito si assiste a una drastica separazione tra questi spazi nella storia della cartografia americana. Per me, che sono appassionata di quello che in ambienti anglofoni si definisce come geografia culturale, gli spazi sono una lente attraverso cui riflettere sugli elementi già citati che pervadono la nostra contemporaneità.
Ho scritto il mio primo libro Uno sguardo a Sud (Liguori 2013) sulla città di Napoli. Lo scrissi tutto d’un fiato tra il 1999 e il 2003 quando ero studentessa di dottorato alla Università della Pennsylvania a Philadelphia. Avevo appena lasciato l’Italia dopo aver trascorso gli ultimi anni in una città che non era la mia città ma che è il simbolo delle mie origini meridionali, una città verso cui nutrivo una sorta di amore-odio. Volevo raccontare una storia che andasse oltre gli stereotipi su Napoli e sul Meridione riscrivendo i termini del discorso. Quello che mi attirava di una città considerata ai margini era la sua anima che per me si traduceva nella sua predisposizione a un’idea di collettività nelle relazioni sociali che a ben vedere si integra nel tessuto urbano e negli spazi cittadini definendo l’essenza stessa di luoghi e persone
Questo lavoro riflette sulla realtà sociale e culturale del Meridione, analizzando la città di Napoli e quanto vi è stato scritto e prodotto. Il Sud e Napoli sono esaminati attraverso esempi significativi delle opere di scrittori, registi, musicisti e artisti che ne hanno tracciato un ritratto nel corso degli ultimi due decenni, a volte nostalgico, a volte ibridato da inflessioni globali, eppure sempre attento a catturare con efficacia i due simultanei aspetti di centro e periferia.
In Florida risiedo in un villaggio molto pittoresco ma creato a tavolino in modo molto artificiale, con una quantità di negozi e ristoranti e attorniato da appartamenti e casette a schiera. Per un’europea si tratta del modo migliore per pensare di abitare in un simil centro che mi ricorda vagamente le città europee. Devo ammettere che la cosa che mi ha attirato di più quando ho visto per la prima volta il mio appartamento sono state le grandi porte finestre, la zona giorno e quella notte su due piani diversi e la vista su una piazzetta con fontanella stile europeo.
Tuttavia, un’altra cosa che mi ha subito stupita dopo essermici trasferita è stato quanto poco i residenti vengano presi in considerazione dai dirigenti della zona commerciale. Ancora non riesco a comprenderne la ragione visto che a mio parere sono proprio i residenti a dare un’anima al villaggio. Sono stati fatti enormi lavori di ristrutturazione della piazza, dei marciapiedi e degli ambienti comuni che hanno giovato l’intera comunità ma causato non pochi disagi ai residenti. L’erba è sempre perfetta e noto che viene sollevata e cambiata stagionalmente, così come i fiori che sono sempre curatissimi.
Una squadra solerte di personale spazza la piazza e i marciapiedi ogni mattina presto con dei leaf blower, soffiatori che fanno un rumore assordante. Questi aggeggi che il personale tiene attaccati alle spalle a mo’ di zainetti sembrano davvero un controsenso ecologico. Causano di certo problemi in primis a coloro che devono usarli per via del rumore e della polvere che respirano, poi ai residenti, e infine sollevano grandi polveroni spostando le foglie e lo sporco da un lato all’altro, quando con una ramazza ci si metterebbe molto di meno e con migliori risultati. Studi hanno confermato che in due ore di uso questi soffiatori per foglie a gas possono causare danni permanenti all’udito, e che in un’ora di uso emettono lo stesso ammontare di carbonio emesso da una macchina che guida per 1770 chilometri.
Credo fermamente che la partecipazione dei cittadini dovrebbe essere considerata un elemento cruciale della sostenibilità. La comunità che risiede nel “villaggio” dovrebbe essere messa a parte delle decisioni che riguardano gli svariati progetti di ristrutturazione, nonché esservi coinvolta di modo da poter fornire il proprio parere. Di sovente, invece, accade che il centro venga considerato mixed use e troppo commerciale per tenere conto dei bisogni dei residenti.
Le città sono sistemi complessi in continua trasformazione, le cui dinamiche devono essere monitorate e progettate di continuo affinché i parametri di vivibilità restino alti. Gli spazi aperti dovrebbero essere pensati ed edificati andando oltre le loro modalità di utilizzo, ma anche in funzione della loro reale capacità di provvedere al benessere della persona e dello sviluppo sostenibile.
Pensando all’idea di comunità bisognerebbe ripensare sia gli spazi dell’abitare che gli spazi del consumo e riqualificare i luoghi di frequentazione collettiva come spazi pensati per i cittadini dove la socializzazione e l’intrattenimento possono avvenire a tutti i livelli in modo equo, senza dover essere per forza associati al consumo. Penso a spazi “democratici” dove artisti di strada possano esibirsi, bambini, giovani e anziani incontrarsi all’aperto e immagino città in Florida pensate per dar modo alle persone di passeggiare, aggregarsi, sentirsi parte di una collettività. Per esempio, nelle città di Tampa e St. Petersburg qui in Florida, i vari progetti di riappropriazione dei waterfronts cittadini hanno dato l’avvio a una serie di iniziative creative che stanno diventando elementi di attrazione delle due città, oltre a essere elementi di recupero delle loro identità marittime. Mi riferisco in particolar modo a due progetti: Sparkman Wharf che si trova nel centro di Tampa e The Pier che si trova sul lungomare di St. Petersburg. Entrambi hanno reinventato due spazi cittadini poco valorizzati e li hanno trasformati in luoghi di attrazione con parchi, spazi pubblici, arte pubblica, murales colorati di artisti locali, scacchiere gigantesche all’aperto, spazi per performance all’aperto ed esercizi di bevande e ristorazione artigianale all’aperto.
Saper valorizzare luoghi in abbandono o che non erano stati progettati con in mente il benessere dei cittadini, significa saper mettere in discussione il passato e metterci alla prova nel rivendicare valori che rappresentano la nostra identità come esseri umani. La resilienza è anche dialogare con culture e modi di pensare distanti da quello che crediamo sia nella norma accettata. Essere resilienti ci aiuta a definire una nuova strada e a parlare alla complessità della nostra epoca.
Di
| Garzanti, 2021Di
| Liguori, 2013Di
| Ombre Corte, 2023Di
| Meltemi, 2020Di
| Feltrinelli, 2022Ti potrebbero interessare
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