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Cosa ci qualifica maggiormente come esseri umani: la capacità di provare emozioni o esperire quelle altrui sulla nostra persona? In un mondo dove la (ri)proposizione costante di sé sembra essere il tratto dominante, col riflesso inevitabile di una proliferazione incontrollata di egoriferimenti, l’attenzione profonda ai sentimenti e stati d’animo di chi vive intorno a noi sembra rivestire uno spazio inversamente proporzionale al tempo che dedichiamo alla voyeuristica osservazione degli altri. Accade, tuttavia, che fatti eclatanti o, per converso, macroscopicamente insignificanti, sussurrino alle nostre coscienze in una lingua che solo la nostra sensibilità riesce a cogliere. Mi è capitato più volte (e non credo di essere il solo) di ritrovarmi con le lacrime agli occhi per un’immagine delicata che richiama alla mente esperienze passate, oppure di provare un brivido per la tenerezza scaturita da parole che avrei voluto sentirmi dire da chi mi era intensamente caro.
Ecco perché Tutta la luce che non vediamo di Anthony Doerr, vincitore del Premio Pulitzer nel 2015, ha smosso qualcosa nel mio intimo, facendomi venire la pelle d’oca per la commozione nel momento in cui l’ho letto e rinnovandola anche a distanza di tempo, sia nel ripensarci sia nel parlarne. Si tratta della storia di due ragazzi, Marie-Laure, francese, e Werner, tedesco, entrambi alla soglia della maggiore età che, per vie indipendenti e del tutto casuali, si ritrovano a Saint-Malo durante la Seconda Guerra Mondiale. È un libro di guerra, non sulla guerra, perché il tema principale non sono scontri e battaglie, bensì pensieri e sentimenti di chi, prima, durante e dopo il conflitto, ha visto cambiare le proprie vite, perdendo gli affetti da cui era stato protetto o a cui aveva dedicato tutto se stesso. Da genitore i comportamenti e le attenzioni del padre di Marie-Laure sono ciò che più mi emoziona e mi scuote nel profondo, facendo risuonare l’empatia verso altri esseri umani, figlia dell’esperienza e del bene che conosco, anzi, che tutti conosciamo, per averla provata in prima persona.
Eppure, si potrebbe controbattere, se le nostre coscienze vengono risvegliate solo da eventi traumatici o tristi, non c’è il rischio di un’esaltazione del pietismo e la commiserazione? A questa critica preferisco rispondere con uno dei libri a me più cari: Melody di Sharon Draper, un romanzo per ragazzi che, come spesso succede, travalica i propri ambiti di riferimento, finendo per parlare e insegnare molto anche agli adulti come me. Ricordo che un giorno, mentre lo stavo leggendo a dei ragazzi di prima media, mi sono ritrovato a piangere davanti ai loro giovani occhi increduli, attoniti di fronte alle mie lacrime o forse alla consapevolezza che il racconto delle vite degli altri potesse smuovere emozioni così totalizzanti. Si tratta della storia di una ragazzina tetraplegica che racconta, attraverso il filtro della propria individualità, ciò che le accade; qui non sono tanto gli ostacoli a farci parteggiare per lei, quanto le ingiustizie derivanti da nostri stereotipati pregiudizi. Nel modo scoraggiato ma al tempo stesso gioioso in cui vengono proposti degli eventi capiamo l’alternanza dei nostri stati emotivi, perché, diciamolo, a chi non è mai capitato di passare dallo scoramento all’esaltazione in pochi, brevissimi istanti, anche in modo totalmente irrazionale?
Seguendo la linea endemica delle emozioni risvegliate dai destini altrui, mi viene naturale pensare a Le gratitudini, scritto da Delphine De Vigan. Si tratta della storia di Michka, degente di una casa di riposo, colpita da una progressiva forma di afasia selettiva che le fa sostituire le parole con altre assonanti ma dal senso leggermente differente. In questo spaesamento si coglie tutto il dramma di chi alla perdita del proprio linguaggio lega inevitabilmente l’oblio di sé. A prendersi cura di lei ci sono due ragazzi, che la sostengono e la accudiscono per non farla sentire sola. Qui si osserva l’essere indifesi e, contemporaneamente, protettivi. Troppo facile sarebbe dirvi che, nell’immagine che ho interiorizzato, ho pensato a mia nonna, eppure è così. D’altronde, non funziona in questo modo l’empatia? La mente attinge ai ricordi a cui siamo legati e che ci risuonano dentro, capaci di sciogliere quei blocchi che ci impediscono di superar le nostre rigidità.
E dunque, se siamo così tanto pervicacemente disposti a metterci in gioco per le persone a cui teniamo, fin dove possiamo spingerci per sfidare le avversità e salvaguardare il nucleo primigenio dei nostri affetti? A mostrarmelo, anzi a mostrarcelo, è stata Pearlie Cook, la protagonista dell’intenso romanzo di Andrew Sean Greer La storia di un matrimonio, uno spaccato di vita americana degli anni ’50 che sembra uscito dalla penna di uno scrittore d’inizio novecento. Qui a commuovermi non è tanto ciò che una moglie è disposta a compiere pur di non lasciare che il marito venga schiacciato dal peso di un passato capace di sgretolare la loro unione, ma la premurosa caparbietà di questa donna, riflesso esteriore di un amore abbacinante e sordo ai consigli della ragione, spinto fino ai limiti di un’ostinazione che sfocia in un sentimento puro e degno solo d’ammirazione.
A chiudere, forse uno dei miei romanzi preferiti di sempre: L' arte di vivere in difesa di Chad Harbach. Salutato nel 2011 come il grande classico americano contemporaneo, narra la storia di un ragazzo troppo gracile per giocare a baseball che, tuttavia, possiede una dote innata e il senso quasi predittivo del predestinato. Nello sviluppo degli eventi vengono affrontati tutti i temi della grande narrativa statunitense: il sacrificio, il senso di squadra, l’abnegazione, le speranze, il risveglio di un amore creduto perduto, il tradimento, il gioco come metafora della vita e il più importante: la caduta dell’eroe lungo la strada della sua consacrazione. Sono molti i personaggi che, per la loro profondità, escono dalla bidimensionalità delle pagine e acquistano spessore e consistenza, tanto che avrei voluto dargli fisicamente un abbraccio e poterli consolare dopo i torti di un destino iniquo e beffardo, o anche, data la loro costante incapacità nel comprendere le loro emozioni, potergli dire semplicemente “non importa, andrà tutto bene”.
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