Dimenticate selfie, sfilate e stuzzichini da apericena: la Milano protagonista ne I cani del barrio, ultimo romanzo di Gianni Biondillo, è molto lontana dall’ideale patinato tanto in voga su instagram, ma diventa teatro di inaudita violenza, fra tentati omicidi e sanguinose lotte fra baby gang.
Se si entra nei giri sbagliati, è difficile uscirne vivi: il capoluogo lombardo si trasforma in una vera e propria Milano da bare, il leggendario ispettor Ferraro dà fondo a tutta la propria flemma da statale per venire ancora una volta a capo del mistero.
“I cani del barrio racconta Milano, come al solito. Sono uno scrittore noioso, me ne rendo conto: la città è una mia ossessione” racconta nella nostra intervista Gianni Biondillo, “Ma nella mia Milano ovviamente non c'è mai il Duomo, non c'è mai il Castello Sforzesco e non ci sono luoghi comuni: quella del romanzo è la Milano dei quartieri veri, dove la città vive e soffre. Il Barrio del titolo è il quartiere di via Padova dove abito da più di dieci anni.”
Un quartiere tutt’altro che tranquillo…
Alcune baby gang di latinos stanno iniziando a rialzare la testa e creare una certa confusione: quella del romanzo è una storia di periferia, perché l’ambientazione passa dal Barrio al Corvetto, al Boschetto di Rogoredo.
Ma a questa storia se ne intreccia un’altra, legata al rapimento e al tentato omicidio di un personaggio in vista, molto ricco, salvato per caso da un passante. La domanda che tutti si pongono è: perché lo volevano uccidere? Cosa c'è dietro a questo tentato omicidio? E soprattutto come mai la vittima di questo rapimento non collabora con gli inquirenti per capire chi volesse ucciderla? Questi due mondi, in apparenza molto lontani l’uno dall’altro, hanno dei punti di contatto.
L'ispettore Ferraro dovrà seguire queste due indagini in parallelo, anche se lo fa contro la sua volontà: è un accidioso naturale.
E forse è proprio questa sua pigrizia a renderlo così amato dai lettori…
L'ispettore Ferraro è entrato in polizia perché non ha trovato lavoro, non certo perché aveva chissà quale missione da compiere... Poi è uno che se bisogna lavorare, lavora. Se gli dai una zappa in mano, zappa. Ma credo che nel suo cervello il suo desiderio ultimo sia quello di fare l'umarello, cioè di andare in pensione e guardare i cantieri. Si riconosce in lui l'essere un uomo senza qualità: un uomo del quale ti dimentichi subito l'aspetto, tanto è vero che il suo aspetto non viene mai descritto nei miei romanzi.
L’ispettore Ferraro è un uomo qualunque. Penso che il lettore si identifichi con lui perché non è una mente geniale, né un perverso criminale, ma una persona come tante. Non è che ogni volta il protagonista deve essere alto, biondo e con gli occhi azzurri, né deve essere capace di sparare, faro lo sciupafemmine e sfoggiare qualsiasi tecnica di autodifesa: l'ispettore Ferraro è una persona qualunque, che fa in maniera dignitosa il suo lavoro.
A renderlo indimenticabile è anche il suo senso dell’umorismo: come scrivi le battute e i dialoghi dei tuoi romanzi?
Tutto quello che scrivo viene letto ad alta voce, sempre. Se non mi suona, vuol dire che c'è qualcosa che non funziona. Scrivere i dialoghi è una delle cose più complicate che si possono fare all'interno di un romanzo. I cani del Barrio è un libro pieno anche di monologhi interiori e descrizioni, ma in un dialogo devi riuscire a rappresentare la personalità del dialogante, e lo devi fare con le sue parole. Non puoi aiutarti con i suoi atteggiamenti, con le sue facce o con i suoi pensieri.
Io stesso in questa intervista sto usando un italiano diverso da quello che parlo con mia figlia o da quello che parlo con mia moglie: mi approccio in maniera differente. Quando scrivo, il mio intento è far parlare i personaggi affinché tu lettore – se apri a caso il libro – dica "ecco, questa frase non può che averla detta Ferraro!" e "questa frase non può che averla detta Lanza!".
Se il dialogo è fatto di persone che parlano tutte allo stesso modo, che poi è il modo di parlare dello scrittore, allora significa che non sei riuscito a toccare il cuore del personaggio, che fra le tue mani resta un burattino.
A me piacerebbe che diventasse invece una persona.
Hai parlato di Milano come dell’ambientazione privilegiata delle tue storie: una città che negli ultimi anni è cambiata molto…
Milano è una città in continua trasformazione: la più antica tradizione di Milano è quella di cambiare continuamente pelle. L'altro aspetto positivo di Milano è che ha nel DNA l'abitudine all'accoglienza: io stesso sono il classico rappresentante del milanese tipo, perché ho la mamma siciliana e il papà campano, eppure sono intimamente e profondamente milanese. Il mio essere milanese non esclude il fatto che si vada giù al paese dai parenti. I più grandi rappresentanti della milanesità, in fondo, non sono milanesi da chissà quante generazioni, da Celentano a Jannacci. Ma è la norma, in questa città: il fatto che nel cortile dove abito ci sono persone che vengono dallo Sri Lanka, dal Sudamerica, dal Maghreb è una cosa abbastanza assodata.
Quindi è vero che è una città molto dinamica, ma allo stesso tempo è vero che l'ossessione gentrificatrice di tutte le grandi metropoli è giunta anche qui: negli ultimi vent'anni, il grande capitale internazionale, con i suoi cantieri e i suoi grattacieli, sta scommettendo su questa città. E come sempre accade, laddove può fare cassa fa cassa. Una strada particolarissima come via Padova, che è sempre stata un punto di accoglienza per chi arrivasse in città – come accade dall'inizio del Novecento, prima con i veneti e con gli emiliani, poi con i meridionali e adesso con gli extracomunitari – si sta trasformando in qualcos'altro. Da un certo punto di vista è un bene, perché un pochino di gentrificazione aiuta a creare un mix sociale che non ghettizzi mai: la forza delle città italiane sta nel fatto che non si sono creati quartieri di soli magrebini, di soli indiani o di soli africani (come accade invece a Londra o Parigi). Da noi è tutto più mischiato. Però è anche vero che se lentamente sposteremo sempre più fuori queste persone, perché si cercherà di fare cassa e quindi di avere un ritorno economico molto forte sui quartieri che si affacciano verso corso Buenos Aires e piazzale Loreto... se questo succede perderemo molto della natura tipica di questa città.
Milano è sempre stata una città popolare, che è sempre stata raccontata, cantata e filmata non come la città dei ricchi, ma come una città del popolo. Questa narrazione che pensa soltanto alla riccanza, al centro, al grattacielo, allo youtuber, all'instagrammer a me fa un po' paura.
Sentendoti parlare si nota che nasci come architetto, e in quanto tale sei fin troppo consapevole dell’importanza del progetto, in narrativa così come in urbanistica…
Abbiamo due o tre ore a disposizione, giusto?
No, solo un minuto.
Il progetto etimologicamente è ciò che si getta oltre: tu sei qui, hai il tuo arco e la tua freccia. Più o meno hai deciso dove stai puntando, ma arrivarci è un’altra cosa.. Il progetto è sempre una scommessa, come sosteneva John Lennon dicendo che la vita è quella cosa che ti accade mentre fai altri progetti. A ogni architetto tremano le vene ai polsi all'idea di mettere mano alla realtà e trasformarla: è una cosa che dovrebbe far paura, mentre ormai si stanno trasformando tutti in parrucchieri che creano edifici strani, curvi, sghimbesci. Ma lo scrittore, così come l'architetto, è un intellettuale. È un critico della realtà.
Da una parte il progetto architettonico molto spesso si lega al capitale, dall'altra il progetto letterario è una visione critica di questa realtà in trasformazione. Da questo punto di vista, si compensano. Io i miei libri li progetto da architetto, ogni romanzo è progettato in maniera diversa. Ho le competenze dell'architetto e la passione dello scrittore. Mi aiuta molto a non perdermi nella topografia del romanzo che sto scrivendo. Si potrebbero fare addirittura proprio gli itinerari dei miei libri, e questo mi aiuta perché il filo narrativo diventa un percorso all'interno della città, che è sempre romanzo di pietra: se la attraversiamo a piedi riconosciamo la storia che ci vuole raccontare.
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