La montagna è tantissimo il passato. Lo conserva, se ne frega di noi. Cerca, quando può, di congelarlo, ma soprattutto di tenerlo attraverso la pietra
Che cos’è il grande cielo?
È il non luogo da cui si vedono tutti i luoghi, dice Alberto Rollo mentre ci racconta il suo nuovo libro che, appunto, si intitola Il grande cielo. È un punto di riferimento, più di quanto sia qualcosa da conquistare o da raggiungere a tutti i costi. È, casomai, qualcosa da percepire, così eroico da ricordare il cielo omerico, una sorta di semidio che ci guida e a cui guardare. Il grande cielo, parliamo del libro, qui, è lo stesso: una somma di coordinate, nella vita di Alberto Rollo, una topografia di quello che è stato – ed è tutt’ora – il suo rapporto con la montagna, con la fatica, con il camminare.
Il viaggio sentimentale di uno dei protagonisti dell'editoria italiana alla scoperta del proprio passato: tra le cime delle montagne che ha frequentato per tutta la vita, Alberto Rollo fa i conti con il suo passato e con i suoi limiti
Quando si parla di montagna si fa presto a ripiegare verso quella narrazione di un luogo dove si mangia "pane e salame", dove si entra in contatto con una natura selvaggia e dove il tempo è clemente, placido, ti fa invecchiare con calma e in salute. Il libro di Alberto Rollo, però, non racconta di questo. Al contrario, il suo è il tentativo di spogliare la montagna dalla retorica, dall’idea che lì alberghino solo sentimenti facili e felici.
Il selvaggio, dice Rollo, non esiste più, ha fatto il suo tempo, quindi non è quello che si cerca e si trova tra le cime brulle o innevate delle montagne. Ciò che si conserva, lassù, ha invece molto a che fare con noi, con il nostro passato e con le nostre paure.
Dalle montagne si vede con chiarezza fino a molto lontano.
Se si stringono gli occhi, si possono vedere cose invisibili dalla pianura, oppure con un’altra prospettiva, più ampia o solo diversa.
È singolare come con il suo libro d'esordio, Un’educazione milanese, Rollo abbia scritto la controparte di un dittico in cui i due racconti si specchiano, anche se forse in modo un po’ asimmetrico. Come scrive nel Grande cielo, è vero che dalla montagna si vede la città, ma accade anche il contrario: da Milano le montagne si vedono, chiamano, ammaliano. Cominciano con l’essere un luogo dove fuggire – dalla città, dalle origini, dalle emozioni frenetiche della vita quotidiana – per poi diventare il punto privilegiato da cui guardare a tutte queste cose.
La sensazione è di essere portati dove si vede ciò che più ci sta a cuore
Se è un punto di riferimento, il grande cielo, allora in montagna può accadere qualcosa che altrove è impossibile. In montagna ci si può perdere. Ci si può abbandonare al senso di smarrimento, a quel sentimento spaventoso, panico e ancestrale che gli esseri umani tentano in ogni modo di rifuggire. E perché ricercarlo, dunque? Be’, perché fa parte di quel passato che la montagna conserva. Il senso di perdersi, e la vertigine del ritrovarsi. Perché, alla fine, la nostra coordinata è sempre là: basta alzare gli occhi. E si riprende la strada.
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