È la sera del 15 gennaio 1919. Rosa Luxemburg, catturata dopo la sconfitta della rivoluzione nel primo pomeriggio nella casa in cui si trova (Mannheimer Straße 27), viene vista entrare (insieme a Karl Liebknecht) all’Hotel Eden, collocato nel centro di Berlino a Kurfürstendamm 246-247.
L’Hotel Eden è la sede dei del comando operativo dei Freikorps, le unità militari e paramilitari volte a reprimere l’azione dei rivoluzionari tedeschi. Poche ore dopo ne esce per essere uccisa non lontano. Il corpo è gettato nel Landwehrkanal, nel tentativo di non consentirne il ritrovamento (che invece avverrà nel maggio 1919). Il capitano Waldemar Pabst (1880-1970), uomo dalle molte vite, comandante dei Freikorps, dirà nel 1962: “Quelle due persone erano i leader spirituali della rivoluzione. Decisi che dovevamo ucciderli. Sono ancora convinto che quella decisione, da un punto di vista etico-religioso, sia ancora interamente accettabile.” Né Pabst, né nessuno degli esecutori materiali dell’assassinio hanno mai pagato per il loro atto.
L’Argentina del dittatore Jorge Rafael Videla, 60 anni dopo non ha inventato niente, semplicemente ha rimesso in uso una pratica che aveva funzionato benissimo nel centro dell’Europa. Nessuna barbarie terzomondista. È tutto europeo il brevetto della pratica della liquidazione degli oppositori senza lasciare prove.
E tuttavia se nessuno si ricorda di Pabst è vero che di Rosa Luxemburg è rimasta memoria solo della sua morte violenta e non delle molte cose che hanno dato personalità alla sua vita.
Di quelle, invece, sarebbe bene riprendere le fila perché il debito che abbiamo con Rosa Luxemburg non si sana su un piano morale, riconoscendo un torto o risolvendo tutto sul piano dell’omaggio formale, bensì prendendo in carico le domande che ci ha lasciato.
Ha raccontato Margaret von Trotta come il percorso che nel 1986 la porta a realizzare Rosa L., un film inizialmente pensato per Rainer Fassbinder, includesse l’uscita dal mito e l’immedesimazione nelle parole, nelle passioni e nelle visioni di Rosa Luxemburg. In breve, la confidenza con tre diverse sue dimensioni: emozionale, razionale, cerebrale.
Emozionale. Ovvero: trovare il modo di non dimenticare l’intimità, la passione, gli amori, ma anche la sensibilità per gli animali, la cinciallegra per esempio,, come scrive a Mathilde Jacob il 7 febbraio 1917, in una delle sue lettere dal carcere. Ma poi anche la sua confidenza al femminile con Luise Kautsky, con Klara Zetkin, o nelle sue Lettere a Leo Jogisches dove si incrociano amore, passione e impegno politico (una per tutte: la lettera che Rosa scrive a Leo il 6 marzo 1899).
In quelle lettere non c’è traccia del ritratto della fanatica, dell’essere «posseduto dalla furia» così come i suoi avversari, in gran parte maschi, avevano costruito il suo ritratto. Rosa Luxemburg: un pupazzo da abbattere, dunque da eliminare. Waldemar Pabst, si potrebbe dire, non fa che mettere in pratica il «caldo invito» che una comunità di addetti alla comunicazione si è impegnata a delineare dall’inizio del secolo, ovvero da quando Rosa fa la sua comparsa sulla scena pubblica.
Razionale è il tema della rivoluzione e del comportamento dei rivoluzionari.
Rosa Luxemburg lo spiega direttamente nel suo Saggio sulla rivoluzione russa, scritto a pochi mesi dalla morte. Il tema, come ha scritto Hannah Arendt molti anni dopo, espresso in questo saggio che per molti aspetti è il più grande omaggio alla sua persona e alla capacità di pensare «in tempi bui», è la pratica della libertà come sfida.
Il vero terreno di prova per chi davvero voglia non tanto definirsi, bensì essere rivoluzionario, Rosa Luxemburg lo esprime sulla pratica della libertà.
La sua convinzione è che non sono le parole, ma gli atti a fare la differenza. Sono le parole che Luxemburg rivolge direttamente ai rivoluzionari russi al potere nel i mesi a cavallo tra 1917 e 1918 (quando la presa del palazzo d’inverno è già avvenuta).
Il passo è famoso, ma vale la pena ripeterlo e fissarlo a mente in tempi inquieti, quando la «libertà» diventa parola qualunque, perde il suo significato profondo e diventa slogan.
Scrive Rosa Luxemburg:
La libertà riservata ai partigiani del governo, ai soli membri di un unico partito – siano pure numerosi quanto si vuole - non è libertà. La libertà è sempre e soltanto libertà di chi pensa diversamente. Non per fanatismo per la «giustizia», ma perché tutto quanto vi è di istruttivo, di salutare, di purificatore nella libertà politica dipende da questo modo di essere, e perde la sua efficacia quando la «libertà» diventa privilegio
La rivoluzione non è solo una sfida, ma è un impegno a non sentirsi privilegiati. Diversamente, sembra di capire, l’esito è già segnato: riprodurre una nuova nomenclatura. Ovvero creare nuove disuguaglianze.
Non è andata così negli ultimi cento anni?
Cerebrale. Per comprendere il presente e le sfide di futuro, Rosa Luxemburg concentra la sua attenzione sul fenomeno dell’imperialismo e del colonialismo e non si limita a rivendicare una battaglia per la libertà.
L’accumulazione del capitale, il volume che pubblica nel 1913 sottolinea come al centro del fenomeno stia la conferma della disuguaglianza. L’espansione e il controllo del mondo da parte delle potenze ricche nient’altro è, scrive, che il desiderio di mantenere la povertà dei colonizzati. Un disegno di sviluppo e di prosperità solo per sé. L’imperialismo non è solo dominio di alcuni su altri, ma è progetto che altri non abbiano un futuro, non ci sia per loro crescita, sviluppo, benessere.
Un profilo e un disegno per domani da cui si esce non per «buona volontà», o per «altruismo», bensì mettendo al centro la dimensione universale del diritto alla libertà e all’eguaglianza per tutti gli esseri umani. Insieme, ragionando, senza farsi guidare dall’entusiasmo o dal rancore.
Cento anni dopo siamo ancora lì a quel bivio.
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