Il 28 dicembre 2018, quando Amos Oz muore improvvisamente, un paese - che a lungo l’ha vissuto da una parte come la voce inquieta, dall’altra come un traditore - si ferma.
In quella cerimonia pubblica, che si raccoglie in un teatro di Tel Aviv per porgere un estremo saluto allo scrittore, forse sorprendono le parole che pronuncia il capo dello stato Reuven Rivlin, esponente di prestigio di quell’area politica, la destra israeliana, con cui Amos Oz ha polemizzato senza tregua per una vita. In quell’omaggio, per molti inaspettato, c’è forse l’ultima istantanea delle emozioni e dei sentimenti della seconda generazione dei pionieri di un paese: quella nata lì, ma troppo giovane per contare nel momento dell’indipendenza nel 1948 e, tuttavia, ineludibile per definire la prima stagione della società civile di un paese in costruzione che cambia radicalmente con la guerra dei sei giorni (5-10 giugno 1967).
Perché quell’omaggio a un uomo e a una figura che nel discorso pubblico la sua parte politica vive come un «traditore»? Forse si potrebbe dire perché lo schema di gioco e il nesso tradimento (di che cosa?) /lealtà (a che cosa?) è una condizione intorno a cui Amos Oz ha scavato a lungo nella sua scrittura letteraria, riguarda tutti, senza distinzione di appartenenza politica.
Ovvio il rinvio a Giuda, ma si veda anche Fima, Una pantera in cantina e Amore tardivo, il primo dei due racconti lunghi che compongono Finché morte non sopraggiunga, che Oz scrive nel 1970.
Che cosa c’è dentro l’esperienza e il percorso di intransigenza, non di abbandono o di dismissione ( qui sta il vero meccanismo di rovesciamento o, se vogliamo, il suo «scandalo») che Amos Oz propone attraverso l’elogio del tradimento?
A un primo livello si potrebbe dire la critica profonda alla tentazione fanatica e al meccanismo mentale fondamentalista, come del resto non mancherà di sottolineare in Cari fanatici. Ovvero il narcisismo e l’onnipotenza, fino a pensare d’essere non tanto «servi di Dio», ma sua incarnazione. Non tanto esecutori del progetto, ma eredi e depositari della sua funzione. E dunque non più solo rappresentanti, ma identici.
La prova è nel nel libro di Giona. Quando Dio lancia messaggi di conciliazione, Giona si ribella perché la realizzazione della missione e del dominio non prevede e non contempla variazioni o riscritture se non come percorso di tradimento? Forse che il percorso di Giona, l’uomo inviato a Ninive perché il popolo si redima e cambi, non è questo? Di fronte al cambiamento della popolazione di Ninive, Giona pretende che si consumi la condanna. Mi chiedo: non è forse un calco di quel percorso mentale, emozionale, culturale del fanatismo? In una parola: non ne rappresenta forse, nella sua essenza, il paradigma politico?
Ma a un secondo livello quella macchina riflessiva intorno al tradimento in un percorso che è la macchina narrativa di Giuda ma che rappresenta anche un luogo concettuale di gran parte della sua scrittura pubblica (narrativa e civile).
Il tema è come prendere la misura e dimettersi dal proprio fanatismo o, almeno, una procedura per marcare la distanza da una condizione in cui gli uomini e le donne riprendono il controllo e la governance di sé stessi e abbandonano la emozione e il fascino di incarnare un’idea e soprattutto di decidere della vita e, cosa più importante, della morte altrui.
«A mio modo di vedere il male più grande non è la violenza, ma l’aggressività, l’aggressività è la madre di ogni violenza», scrive in Gesù e Giuda.
Ogni tanto, le parole aprono varchi per iniziare a capire.
L’odio vero il rinnegato è diverso dall’odio verso l’eretico o l’infedele. L’infedele è definito a priori. Il rinnegato è, invece, uno che cambia rispetto a una condizione di partenza, a una natura che avrebbe dovuto tenerlo lontano, da questa possibilità. Giuda, anche per questo, ci riguarda da vicino. Scelgo un passo da esso:
Chi è pronto al cambiamento, disse Shemuel (uno dei tre protagonisti in vita, altri ci sono ma sono morti e dunque parlano attraverso le loro parole che i vivi hanno conservato) , chi ha il coraggio di cambiare , viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento, e hanno una paura da morire del cambiamento e non lo capiscono e hanno disgusto di ogni cambiamento. (Giuda, p. 269)
Ritengo che Oz non pensasse solo ai fanatici di casa sua, ma a chi del «passaggio di frontiera» fa la sua bandiera, pensando di essere «esempio al mondo».
Il tradimento su cui ci chiede di riflettere Amos Oz non è il passaggio dalla parte di quello che fino a ieri era l’avversario. Al contrario: è la definizione da parte di chi ha dubbi su ciò che in cui ha creduto fino a quel momento, pone domande ineludibili del proprio tempo, rivolgendosi ai propri e costringendo i propri a pensare, e a smettere di credere. Ovvero non passando al campo avverso, parlando e cercando di interloquire con chi non è d’accordo nel proprio campo, volendo rimanere nel proprio campo. Una partita che si apre nello stesso campo in cui si è giocato fino a quel momento.
La posta in gioco è la scommessa sul cambiamento e non si fonda sull’atto dell’abbandono, ma su quello del cambiare alcune variabili e dimostrare la debolezza, la scarsa lungimiranza, il «fiato corto», del proprio discorso pubblico e di ciò cui si è profondamente convinti.
Il tradimento, dunque, non è scegliere di passare nel campo dell’avversario, ma rovesciare o scombinare radicalmente l’assunto e il modello argomentativo su cui si è retta la retorica, la struttura argomentativa e la scala delle priorità della propria parte, rimanendo da questa parte.
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