Sotto le copertine

La musica di Clarice

La "Virginia Woolf amazzonica", detta anche "il Kafka brasiliano", era nata nel 1920 in Ucraina. 
Quel cataclisma centrifugo che fu il disfacimento dell'impero russo proiettò le schegge della famiglia Lispector da un piccolo shtetl al confine orientale con la Moldavia verso un mondo nuovo, che la piccola Clarice avrebbe ben presto imparato a considerare casa propria soprattutto attraverso il suo strumento più affilato: la lingua. Ma nella lingua di Clarice, la radice di quello spaesamento originario non sarebbe mai venuta meno.
La scrittrice - che non volle mai considerarsi professionista della scrittura - imparò a dialogare con le ore vuote e con sé stessa soprattutto durante le missioni diplomatiche del marito, che la portarono a vivere per periodi più o meno lunghi in diverse città europee. 
Oggi, a poco più di un secolo dalla nascita di Clarice Lispector, la sua stella appare chiarissima e luminosa. Proprio com'era giusto e naturale che fosse, intendiamoci: ma la grandezza, in letteratura, vive simultaneamente come espressione del tempo in cui si esprime e al di fuori di esso.
Strano paradosso, che alcuni narratori pagano più di altri. 
La città assediata - suo ultimo romanzo inedito in Italia, oggi pubblicato da Adelphi - dice una volta di più le ragioni per le quali oggi tutti dovremmo tornare a Clarice come si torna ad un fiume, che non smette di muoversi ed evolvere, esattamente come il lavoro di traduzione necessario a dar conto di tutti i mutamenti, sottilissimi eppure presenti, che innervano la sua scrittura.
Ma lasciamo che a raccontarci Clarice e la sua Cidade sitiada sia il suo traduttore italiano: quel grande traduttore dal portoghese e dal brasiliano che è Roberto Francavilla

La città assediata
La città assediata Di Clarice Lispector;

La vera protagonista dei libri di Lispector come sempre è la scrittura: immaginifica, abbacinante, ustionante – quella di «una Virginia Woolf amazzonica, arruffata e vagamente stregonesca» come la definì una volta Roberto Calasso.

L'intervista con Roberto Francavilla


Maremosso: Roberto Francavilla, buongiorno. Cominciamo con lo sciogliere una curiosità per i lettori italiani di Clarice Lispector: si pronuncia “Claris”, all’inglese? Oppure è proprio “Clarice”?

Roberto Francavilla: La fonetica dei nomi propri brasiliani è abbastanza variegata e spesso cambia da Stato a Stato e da nord a sud! In generale nel nostro caso la pronuncia è “Clarìsi” (in cui la "i" finale spesso diventa una "e").

MM: Che libro è “A cidade sitiada”? Sappiamo che fu concepito durante la permanenza di Clarice a Berna, in Svizzera, mentre era al seguito del marito, diplomatico brasiliano.
Un periodo che lei stessa avrebbe ricordato come molto difficile: quanto di questo sentimento doloroso permea il romanzo?

RF: Il rapporto fra romanzo e circostanze biografiche si trasforma in una specie di fatale circolo vizioso.
Non solo la sottile depressione che corrode gli anni bernesi si riversa nella scrittura (declinandosi nelle forme abbastanza scontate dell’insoddisfazione e del timore di una sopravvenuta incapacità, di inettitudine creativa – fortunatamente smentita da quanto seguirà) ma è anche la fatica del romanzo, fitta di inceppamenti, rallentamenti e soprattutto dubbi, a influire sullo scorrere dei giorni. La corona alpina che dovrebbe rappresentare un paesaggio di bellezza si configura come una sorta di gabbia. Giorni ingabbiati, infatti, quelli di Clarice a Berna.
Con il leggero sollievo di un fittissimo epistolario (specie con le sorelle), di malinconiche evocazioni del Brasile lontano, di rare amicizie e di un breve soggiorno parigino in cui Clarice si immerge letteralmente (e in modo euforico) nella cultura e nelle vibrazioni della ville lumiére

MM: Come ha lavorato alla traduzione del libro assieme ad Elena Manzato?

RFL’esperienza della traduzione a quattro mani, oltre a essere creativa, è altamente istruttiva.
Ho già lavorato in precedenza con altre due ottime traduttrici (Cecilia Pero e Virginia Caporali).
Con Elena Manzato, che rivolge la sua attenzione di studiosa alla linguistica brasiliana e al campo della ricezione letteraria, ho già tradotto un graphic novel (il pluripremiato Ascolta, bellissima Marcia di Marcelo Quintanilha) e il bellissimo romanzo di Patrícia Melo, Donne impilate. Nel caso della Lispector abbiamo lavorato a tre diverse stesure alternandoci nelle revisioni e confrontandoci a distanza.
Spesso il traduttore tende a rinchiudersi in un universo linguisticamente autoreferenziale cui è quasi sempre indispensabile il ruolo di “scardinamento” esterno (anche aggressivo, se necessario!) del buon editor. Lavorare a quattro mani evita puntualmente questo pericolo.

Un apprendistato o il libro dei piaceri

Una storia d'amore positiva, in cui gli unici due protagonisti vanno in cerca di una vita vissuta insieme, nel dolore e nel piacere.

MM: Il portoghese è una lingua che fa ampio utilizzo di una forma del tempo passato che somiglia al nostro passato remoto. Quale approccio richiede questo aspetto, da parte del traduttore?

RF: Chi conosce bene (molto bene) la lingua portoghese, sia nella variante del Portogallo che in quella del Brasile, ha ormai introiettato alla perfezione questo riverbero pieno di sfumature.
Le cose, fra l’altro, si complicano con certe forme del congiuntivo che implicano spostamenti talvolta ambigui e insondabili nella dimensione del tempo.
La tendenza è quella di decidere all’inizio per quale passato optare per poi, semplicemente, continuare a “sentirlo”.

MM: Ogni grande autore ha una musica, che i suoi traduttori devono imparare a riconoscere ad orecchio, per così dire, in modo da poterla riconoscere all’impronta e padroneggiarne le sfumature. Qual è la musica di Clarice Lispector?

RF: Clarice spesso si riferisce a grandi compositori.
Lei stessa, in molti suoi libri, “suggerisce” cosa ascoltare o ci informa su cosa sta ascoltando questo e quel personaggio di un romanzo.
Ciò indica un rapporto stretto con la musicalità, rapporto che si riflette nella sua scrittura e perfino nella voce che il traduttore sente mentre le parole si trasformano dal suo portoghese in un’altra lingua.  La musica di Clarice è difficile e ci vuole tempo e pazienza per captarla.
Ma è come se fosse un percorso iniziatico: una volta penetrati in quel mondo, si manifesta al nostro udito in tutta la sua originalità e in ogni minima sfumatura identitaria.
Quando ho tradotto Acqua viva (Adelphi) ho vissuto l’esperienza (faticosissima, intimamente densa) del percorso iniziatico "clariciano".
Oggi quella musica mi accompagna, non devo più cercarla.

MM: Nata in Ucraina, a un anno la sua famiglia emigrò in Brasile. Andata poi sposa a un diplomatico, Clarice trascorse lunghi periodi in Svizzera, a Napoli e poi a Washington, prima di tornare nella sua amata Rio de Janeiro, dove sarebbe rimasta fino alla prematura fine.
Questa vocazione cosmopolita, per quanto sofferta, è leggibile nell’uso che Lispector fa della lingua?

RF: Clarice era traduttrice a sua volta.
Oltre al portoghese e all’yiddish ha frequentato il francese e l’inglese. L’ambiente della diplomazia la infastidiva ed era una sorta di croce che aveva deciso di portare in silenzio per il quieto vivere del suo matrimonio (finché è durato).
Ma il lato positivo di quell’esistenza in parte nomade (nonostante il profondo radicamento brasiliano e l’amore per la sua città-ombelico, Rio de Janeiro) è stato il fatto che l’essere moglie di un diplomatico le ha offerto l’occasione di viaggiare fin dalla sua prima giovinezza, frequentando spesso ambienti colti e stimolanti. Basti pensare all’amicizia con Ungaretti (che amava il Brasile, dove aveva insegnato a lungo letteratura italiana) che incontrava nel periodo difficile della fine della Seconda Guerra Mondiale trascorso a Napoli e con cui progettava una traduzione in italiano del suo primo romanzo.

Una foto di Clarice Lispector scattata nell'agosto 1969 da Maureen Bisilliat

Tutti i racconti
Tutti i racconti Di Clarice Lispector;

La pubblicazione in un volume di tutti i racconti, per lo più inediti in italiano, di Clarice Lispector è un grande evento culturale.

MM: Dando il giusto peso alle definizioni da marketing editoriale, quanto – a suo avviso – è fondata per Lispector l’etichetta di “Kafka brasiliana”?
A parte il celeberrimo scarafaggio che è al centro de “La passione secondo G.H.” e le origini ebraiche, ci sono altri elementi ad accomunare i due scrittori?


RF:
Personalmente trovo che simili etichette servano solo, per l’appunto, a muovere il fantasmagorico universo del marketing editoriale.
I libri vanno venduti e certi cliché aiutano ad addomesticare le scelte del lettore medio. Neanche Clarice sfugge a queste dinamiche.
Basterebbe leggerla per capire quanto invece basti a se stessa, quanto sia originale e monumentale la portata della sua scrittura.
La sua opera, peraltro, va ben oltre la collocazione geografica e culturale. Profondamente brasiliana, eppure portatrice di un linguaggio e di tematiche universali. 

Il lampadario
Il lampadario Di Clarice Lispector;

Lispector narra questa struggente iniziazione alla vita con la sua lingua lussu­reggiante e visionaria: «attenta» ha scritto Franco Marcoaldi «al cuore che batte, al­la vena che pulsa, alla vibrazione cieca del sentimento nel corpo».

MM: Benjamin Moser, grande critico e traduttore, ha scritto di Lispector che “Clarice ha portato l’antica tradizione mistica ebraica dell’Europa orientale in un mondo nuovo e selvaggio”. Clarice Lispector ha con la sua opera costruito un ponte fra due mondi lontanissimi. Chi altri, fra gli scrittori che lei traduce oggi, è capace di mettere in relazione ambiti apparentemente inconciliabili?

RF: Non concordo un granché con l’affermazione di Moser.
Nella biografia che lo studioso americano le ha dedicato, la matrice ebraica è assai rilevante.
In tutta sincerità non ne colgo però i riverberi nell’opera, se non in minima parte e soprattutto nei romanzi intimisti e autoriflessivi dell’ultima fase, in cui l’elemento spirituale si esalta, complice la consapevolezza della malattia e della fine incombente. Credo che l’ebraismo di Clarice sia più da un lato una riconoscibile presenza atavica e dall’altro il motore per una forma di ricerca personale, dell’anima.

MM: Quando si è innamorato del portoghese, Roberto Francavilla? È stato per un libro, un viaggio, un’amicizia o un amore? 

RF: Il mio amore per la lingua portoghese nasce in un luogo apparentemente eccentrico, l’arcipelago di Capo Verde, grazie a un viaggio compiuto per motivi familiari nell’estate fra la fine del liceo e l’inizio dell’Università. Tornato da quel viaggio mi iscrissi a Lettere a Genova e sull’onda della scoperta estiva di quella lingua e intuendo i mondi che quella lingua avrebbe potuto rivelarmi andai ad ascoltare una lezione di letteratura portoghese.
La lezione era su Pessoa. Il docente era Antonio Tabucchi. Quel viaggio a Capo Verde decise la mia vita perché di Tabucchi divenni allievo, poi collega a Siena e grande amico.
O forse fu per me una specie di padre. In ogni caso, conclusi il mio corso di studi con un altro viaggio iniziatico, questa volta lungo e bellissimo, in Brasile, a cui seguirono anni vissuti a Lisbona.

Un ritratto di Roberto Francavilla

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