Ma su Maria Callas è già stato scritto di tutto, dice una vocina della coscienza a chi si accinge a spremere qualche migliaio di caratteri allo scoccare del primo secolo dalla nascita del soprano più celebre del Novecento.
E in effetti legioni di musicisti, biografi, giornalisti, romanzieri, vociomani, adoratori, fashion-stylers, chiunque si è sentito in diritto almeno una volta di improvvisarsi esperto nel tentativo di tracciare un senso da quell’intreccio problematico di un’eccezionale personalità musicale dal percorso biografico complesso – quasi come a volersi accaparrare più che altro qualche brandello del suo mito, che è ovviamente e rigorosamente “iconico”.
René de Ceccatty narra in queste pagine della vita della grande cantante lirica alla ricerca di ciò che l’ha resa unica e inimitabile a tal punto da non aver esercitato alcuna influenza visibile o udibile su altri artisti.
Icona è del resto parola che descrive già da sé l’ultima cantante dei palcoscenici lirici ad aver unito la lunga storia del fanatismo canterino operistico – imprescindibile nel concetto di melodramma e rimontante all’inizio del Settecento – al sovradosaggio mediatico che, pur ancora in epoca da rotocalchi, per la prima volta si è scaraventato a tallonare una cantante lirica come allora si faceva solo con le attrici di cinema: dalla furia contro lo sceriffo che le mette in tasca la denuncia nel camerino (l’espressione lì, voluta o no, sapeva troppo di Medea per non cadere nella tentazione facile di sovrapporre arte e vita), all’ozio in costume da bagno. In effetti ci sono fior di volumi che con le fotografie riescono a dire della Callas meglio che con le parole (il migliore è quello di Attila Csampai, Rizzoli, 1995).
E a questo punto che l’icona intesa come immagine si trasforma in icona intesa come rappresentazione di un’epoca e, da lì è un attimo, di uno stato dell’esistenza, perciò fragilità dietro la passione, estremizzazione della femminilità (ma già Arbasino aveva parlato di «verismo della tonsilla e della salpinge»), venerazione categoriale, la facile analogia – la bionda e la bruna – con la perfetta contemporanea Marilyn Monroe nella ricerca di una felicità impossibile. Impossibile?
Si potrebbe anche dire di un’infelicità cercata e ben trovata, a partire dal barcone di Onassis: ma l’epilogo è troppo scontato per stupirsene. Più interessanti sono gli inizi, la famigliola Kalogheropoulou a Manhattan – il 2 dicembre del 1923 la Maria era nata a New York, non sotto il tempo di Apollo a Delfi – e il marito industriale italiano che l’ha tirata su dal nulla, e gli inizî strepitosi e l’improvviso e decisivo dimagrimento di cui andava fiera, ma non privo di grossi sacrifici se Paolo Poli diceva di averla vista al Biffi Scala inzuppare un fegato crudo nel brodo caldo («dava da mangiare alla bestia che era dentro di lei!»).
L’effetto fu però strepitoso perché le tirò fuori gli occhi fulminanti e il naso espressivo, imponendo un bello femminile lontano dallo stereotipo hollywoodiano in vigore, e al contempo inimitabile. Venivano fuori cioè insieme l’epos esiodeo e la grazia prassitelea, le erinni e le nereidi, un magma di passionalità inconscia che ha saputo sfruttare alla perfezione sul palcoscenico: come attrice – in una categoria professionale che ha sempre sottovalutato la recitazione (e che Pasolini sfruttò, un po’ cinicamente, al cinema) – e come astuta interprete della modernità.
E qui si torna all’immagine. Nessuna ha capito la modernità meglio di lei perché nessuna meglio di lei ha capito la fotografia. Nessuna come Maria Callas davanti alla macchina fotografica ha saputo trovare il gesto statuario eppure impalpabile che l’assimila al personaggio e fissa in una formula lo spirito del tempo attingendo a secolari modelli occulti – esistono persino studî che trovano addentellati fra pose della Callas e certe immagini sacre seicentesche – di modo che le sue foto diventano quasi santini. Non c’è dubbio: la Callas nel costume di Norma o di Violetta o di Medea era Norma, Violetta, Medea, e allo stesso tempo era una proposta di estetica novecentesca.
È un’abilità che va a credito di uno dei suoi due pregi professionali, cioè la capacità intuitiva. Ormai si sa che la Callas non era una filologa, non rispettava la partitura alla lettera («per me non si taglia mai abbastanza» aveva risposto al convegno verdiano di Chicago del 1974 a chi le chiedeva qualcosa sulla prassi di tagliare le arie, sconcertando la platea) e spesso semmai la intuiva al di sotto del pentagramma facendola subito propria.
Però sapeva rendere con la recitazione e con la voce anche i più sottili trascoloramenti psicologici, come quelli di Elisabetta in Don Carlo, e comprendeva i personaggi con una fierezza e un’immedesimazione che appartengono solo ai più folgoranti processi di sintesi mentale. Era una cosa tutta sua che le veniva da una formazione in parte autodidattica, e infatti sapeva di non essere a sua volta un’insegnante tecnica: a Filadelfia mollò dopo due lezioni, alla Juilliard School faceva maieutica sull’interpretazione del personaggio.
Voce irregolare, inconfondibile, non purissima, non impeccabile nei centri e nei bassi, era però interprete di pienezza assoluta perché aveva intuito che il soprano non ha aggettivi – leggero, drammatico, lirico e ciacole così inventate in età postromantica – ma dev’essere una cantante completa come lo era già prima di Verdi (nel dubbio, di fronte alla novità il critico Eugenio Gara pensò bene d’inventarsi per lei una nuova definizione, assurda ma evocativa: “soprano drammatico di agilità”).
Solo così aveva potuto passare in pochi giorni nel gennaio 1949 alla Fenice dalla Valchiria di Wagner ai Puritani di Bellini schiantando le platee, e in seguito rievocare le Norme, le Vestali, le Medee come da territorii sconosciuti, recuperare fin dagli esordi il gusto, il fraseggio, l’accentazione del canto d’inizio Ottocento, restituire al virtuosismo tecnico il suo ruolo di espressione togliendolo dalle grinfie del funambolismo, riscoprire il repertorio fra Sette e Ottocento e quello belcantista (Rossini e Bellini) fino a quel momento dimenticato al di fuori di qualche titolo.
Non fu per questo che la carriera restò breve, poco più di un decennio con picco fra 1953 e 1955, gli anni di Giulini, di Visconti, della Scala. Ma quella brevità ha contribuito alla divinizzazione, come la morte precoce e misteriosa che l’ha proiettata dritta nell’empireo dei simboli eterni. Il resto appartiene alle cronache terrene di cui tanti hanno scritto tanto.
Ah, l’altro pregio professionale di Maria Callas era la capacità instancabile, approfondita e pignola di studiare: il che la rende, oggi, splendidamente inattuale.
Di
| BEAT, 2023Di
| Nottetempo, 2023Di
| Cairo, 2023Di
| Gremese Editore, 2023Di
| Rizzoli, 2023Di
| Carocci, 2023Di
| LIM, 2023Di
| Giunti Editore, 2021Di
| Feltrinelli, 2018Gli altri approfondimenti
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