Innovativa, visionaria, tenace, Sara Reggiani è un editore, anzi una donna editrice, che potremmo descrivere così, come un’eroina del West, quello che lei ama raccontare, ma non sarebbe una di quelle figure femminili che aspetta il ritorno di un cowboy qualsiasi dentro a quegli spazi immensi, quanto piuttosto una ‘fuorilegge’, una figura fuori dagli schemi, come Calamity Jane, Poker Alice o Big Nose Kate (ma il naso e le pistole naturalmente non c’entrano niente!)
Spostiamoci ai giorni nostri, dalle pianure americane al centro di Firenze e la incontriamo, per parlare con lei di Black Coffee Edizioni, la casa editrice nata un pugno di anni fa, fondata da lei e da Leonardo Taiuti, suo marito, traduttori di formazione ma soprattutto viaggiatori e sognatori.
Sara Reggiani non sa abbattere un albero (com’è lei stessa a confessarci!) ma, da traduttrice e da editrice, sa trovare le parole giuste per raccontare a noi italiani dell’America dei taglialegna, delle foreste e del paesaggio americano. È l’America del sogno quella che Black Coffee ci mette davanti, quella che ognuno di noi si porta dentro, eppure un po’ diversa, un’America che sotto i colori sgargianti dei motel, dei drive in dei giorni nostri, degli spazi infiniti che ancora rimangono, contiene tanti racconti di vita ai confini del mondo: un modo allo stesso tempo onesto e radicale per restituire ai lettori una possibile identità del Nord America di oggi, prescindendo dai luoghi comuni che infestano l’immaginario relativo al continente americano.
Sara Reggiani è una sognatrice. In quanto tale, ama anche la poesia:
‘La poesia è capace di dare sollievo e di comunicare in una maniera talmente diretta che anche chi non è abituato a leggerla può trarne qualcosa, quindi, se non è una grossa perdita per l'impresa, continuiamo!’ E anche per noi è arrivato il momento di buttarci e di iniziare la nostra chiacchierata.
Black Coffee Edizioni, 2017 - 2022, un caffè lungo cinque anni! Che aroma sprigiona e in che modo lo avete corretto, rispetto alla ricetta iniziale?
Sprigiona un aroma nuovo. La ricetta iniziale era semplice e spensierata, una casa editrice di ricerca, nata dalla volontà mia e di Leonardo (Leonardo Taiuti n.d.R), l'altro editore nonché mio marito che, stanchi di tradurre solo quello che ci veniva proposto dagli altri editori, volevamo provare a portare in Italia libri che vuoi perché di nicchia, vuoi perché semplicemente era passato il momento, non arrivavano.
Leonardo e io ci siamo sempre occupati di letteratura e di libri ‘americani’ e quando diciamo ‘americani’ non intendiamo solo gli Stati Uniti ma tutto il Nord America. Prima della pandemia viaggiavamo tanto, incontravamo persone, era veramente un lavoro di ricerca. Naturalmente ci inserivamo in una scena editoriale già ‘sazia’ e quindi per fare un lavoro che servisse a qualcosa, dovevamo dare spazio ai piccoli, alle realtà indipendenti. Cercavamo libri di autori giovani o che non erano arrivati in Italia ma che secondo noi avevano un valore. Inizialmente si trattava solo di narrativa, molti racconti che in Italia arrivano poco, era un discorso di gusto letterario e anche di originalità.
E infatti nel nostro catalogo c'era tanta letteratura un po' strana, immaginifica… poi siamo cresciuti e nel frattempo è cambiato il mondo: violenza e razzismo, che in America si stanno facendo di nuovo preponderanti, poi la pandemia, i discorsi di genere… abbiamo sentito che avevamo una responsabilità: trattando d'America, per avere un posto nel mondo editoriale, dovevamo portare non solo cose originali, cose di nicchia, ma dare spazio a delle tematiche che secondo noi non venivano approfondite abbastanza dalla ‘grande editoria’.
Eravamo un piccolo team, io, direttrice editoriale, naturalmente Leonardo e Federica Principi, entrata come redattrice e diventata subito socia e insieme abbiamo deciso di ampliare la nostra offerta. Avevamo capito che se volevamo parlare di letteratura americana, la cosa più importante da comunicare era la complessità del momento e che per farlo ci volevano molte voci, molte forme letterarie. Così nel nostro piccolo catalogo (da cinque siamo passati a dodici titoli all’anno), abbiamo fatto entrare la poesia, la saggistica e una rivista letteraria, per essere un piccolo editore la nostra offerta è molto ampia.
Affacciarsi su un mercato editoriale difficile e ricco come quello italiano non deve essere stato facile, specialmente con una proposta controcorrente come la vostra: racconti (che suscitano sempre una certa resistenza nei lettori italiani), poesia … eppure i risultati sembrano darvi ragione. Qual è, secondo te, il motivo di questa risposta da parte dei lettori?
È semplice, come tutte le cose: quando offri qualcosa, qualcuno di interessato lo trovi.
Così è stato per la casa editrice, nata come esperimento, e poi per tutte le altre cose. Conoscevamo John Freeman, grande scrittore e critico letterario americano, e abbiamo pensato che forse, con il suo aiuto, avremmo potuto portare in Italia una rivista letteraria… Non credevamo che ci avrebbe dato fiducia e invece… siamo diventati amici e consiglieri l'uno dell'altro e Black Coffee è diventata l’editore di Freeman’s, la sua rivista letteraria.
Qualche anno dopo abbiamo ideato insieme a John e Damiano Abeni una collana di poesia, Nuova Poesia Americana, che ospita antologie nelle quali ogni anno scegliamo di proporre sei poeti contemporanei. È vero: la poesia non vende tanto. Ma è anche vero che se ci credi, un modo per pubblicarla lo trovi. E poi ho pensato che non sarebbe stato giusto tralasciarla perché in questo momento la poesia è in fermento negli Stati Uniti e ce n’è bisogno anche qui. Dentro le nostre antologie ci sono poeti qui sconosciuti e premi Pulitzer: quello che spero è che questi poeti che noi portiamo ‘in pillole’, possano venire un giorno ripresi da editori più grandi per avere lo spazio che meritano.
E questo vale anche per la saggistica. Il discorso sul paesaggio è sempre stato una mia passione e in America c'è una grandissima produzione di libri che parlano del paesaggio da un punto di vista non solo scientifico ma anche sentimentale, perché il paesaggio è qualcosa di cui l'uomo fa parte, il paesaggio non è solo natura, unisce umano e non umano. Naturalmente anche questo implica portare in Italia dei libri non tanto facili da gestire… ci voleva una collana, e ho creato This Land. È qui che la mia voce di editor si fa più sentire.
A proposito di passioni e competenze, in che modo le tue e quelle di Leonardo hanno contribuito a fare di Black Coffee quello che è oggi?
Alla base di Black Coffee c'è la nostra passione per la ricerca e il desiderio di far passare alcuni temi. A livello di gusto, invece, direi che in narrativa io ho una propensione per una scrittura originale, un po’ “allucinata”, Leonardo invece è più classico. I nostri gusti in ogni caso si compenetrano (forse solo This Land è più che altro mia). E non ci siamo solo io e Leo: oltre a valutare con noi ogni genere di testo, Federica Principi cura la collana che abbiamo chiamato provocatoriamente Americana. Ridare valore alla complessità del soggetto americano è in fondo un modo per capire meglio noi stessi che di “americanità” siamo imbevuti – da qui il nome della collana, Americana, termine nato per indicare l’insieme di tutto ciò che l’America rappresenta nell’immaginario comune e che crediamo dovrebbe ora allargarsi a comprendere nuove vite, nuove possibilità, nuovi intrecci. Penso ad esempio a Storia del mio breve corpo, un libro di un nativo americano della Nazione dei Cree che fa anche parte della comunità queer e quindi, cosa significa oggi essere queer, in una riserva? Leggi Finché non ci ammazzano di Hanif Abdurraqib e capisci cosa significa essere nero e ascoltare musica punk.
Ispirandosi alla fortunata collana lanciata negli anni Sessanta da Penguin, Edizioni Black Coffee propone ai suoi lettori «Nuova poesia americana», una serie di piccole antologie concepite come guide alla ricchezza e alla diversità della poesia nordamericana contemporanea. Ciascun volume riunisce ogni anno una selezione rappresentativa dell'opera di sei autori, al fine di agevolare il naturale incontro fra il lettore curioso – così come l'abituale fruitore di poesia – e le voci più entusiasmanti dell'attuale scena poetica d'oltreoceano. Il compito di portare ai lettori il meglio che questa forma di scrittura, purtroppo raramente frequentata, può offrire è affidato all'esperienza del poeta e critico letterario John Freeman e del principale traduttore italiano di poesia americana, Damiano Abeni. Volume I, i poeti: Tracy K. Smith, Terrance Hayes, Natalie Diaz, Robert L. Hass, Layli Long Soldier, Robin Coste Lewis.
Parliamo di 'A volte una bella pensata' di Ken Kesey, autore conosciuto in Italia quasi esclusivamente per 'Qualcuno volò sul nido del cuculo'. Quali sono stati i passaggi che hanno portato alla nascita di un libro come questo?
'A volte una bella pensata' è un titolo totalmente in linea con quello che stavamo dicendo perché è frutto di un lavoro di ricerca o meglio di presa di coscienza: questo titolo in Italia semplicemente non c'era, di Kesey in pratica si conosceva solo One flew over the cuckoo’s nest, da cui Forman ha tratto il famoso film. Ma a me sembrava che Kesey si fosse espresso al massimo della sua potenza proprio in 'Sometimes a great notion'. Questa intuizione però era caduta nel vuoto, eravamo un piccolo editore e questo è un libro di ottocento pagine e ci spaventava. Diversi anni dopo, Federica me l’ha messo davanti e poi durante un viaggio in America abbiamo cominciato a chiedere e con mia grande sorpresa è venuto fuori che 'Sometimes a great notion' era ‘il’ romanzo di Kesey e che se gliel’avessero chiesto, lui senz’altro avrebbe risposto che era il suo romanzo-capolavoro. A quel punto abbiamo acquisito i diritti (e mi sono stupita che ce li vendessero, ma evidentemente era stata percepita la qualità del nostro lavoro). A quel punto si è presentato il problema della traduzione, ottocento pagine, per un editore piccolo, è un impegno economico veramente importante, così ho deciso di caricarmi completamente questa responsabilità sulle spalle e di tradurlo io. E devo aggiungere una cosa: la maggior parte dei libri del nostro catalogo vengono tradotti da me, Leonardo o Federica, quindi prendere l’impegno di tradurre 'Sometimes a great notion' significava che almeno per un anno io non avrei potuto occuparmi di nient’altro. Ma Leonardo e Federica mi hanno appoggiato e si sono presi anche il mio carico di lavoro. Così ho passato tutto il 2020 (lockdown compreso) a tradurre questo capolavoro. È stato difficile perché mentre traducevo, i boschi dell’Oregon e del Montana, quelli di cui parla Kesey, stavano letteralmente andando a fuoco a causa degli incendi mentre noi eravamo chiusi in casa, e di qui il timore che forse, quegli spazi e quei boschi, non li avremmo mai visti. Questa è senz’altro l’opera più difficile cui io abbia mai lavorato e la responsabilità per un po' mi ha schiacciato, avevo paura di non essere all'altezza. Poi mi son detta basta, le sfide ti son sempre piaciute!, ho iniziato a studiare, a compilare glossari, come si abbatte un albero, come funziona una segheria, la terminologia dei taglialegna di una volta insomma, un linguaggio che mi era assolutamente estraneo. E poi facevo le voci dei vari personaggi (e son tanti!), l’unico modo per rendermi conto se suonavano autentiche. Insomma, è stata un’esperienza delirante, di notti insonni e improvvise rivelazioni, “ventriloquismo” e sperimentazione. Di sicuro non sono più la traduttrice (né la persona) di prima!
… e una volta ‘finito’, come si racconta un libro ai lettori? Su quali leve si può giocare per far capire l'importanza di un autore e di un testo, soprattutto di un testo come questo, che è una ‘chicca editoriale’ perché praticamente sconosciuto in Italia?
Si fa con tanta buona volontà!... ma non è semplice. Con Marta Ciccolari Micaldi, alias la McMusa, che cura anche Black Coffee sounds good, il nostro podcast, abbiamo fatto delle dirette e anche una lezione su Instagram per spiegare chi era Ken Kesey, la controcultura degli anni ’70, che cosa ha rappresentato quel periodo di sperimentazione delle droghe, della libertà sessuale e di pensiero. Abbiamo cercato di avvicinare anche i giovani lettori con tutti i mezzi a nostra disposizione. Non sono stati tanti quelli che ci hanno aiutato, abbiamo faticato a far passare il messaggio che era un libro importante, che aveva tanto da dire anche a livello di rapporto uomo/natura, soprattutto in un momento come questo in cui la natura si sta rivoltando… ma nonostante tutto il libro vende e credo che sarà sicuramente un long seller e noi continueremo a pubblicare tutto quello che Ken Kesey ha scritto!
Un’altra delle cose che si è fatta notare subito di Black Coffee è l'aspetto grafico dei libri. Da dove deriva questa particolare sensibilità? Possiamo considerarla come un omaggio all’illustre tradizione editoriale americana?
Da un certo punto di vista, sì. All’inizio, pubblicando solo narrativa, volevamo fare come in America dove non esistono le collane e i libri escono ognuno con la propria copertina, senza nulla in comune tranne il marchio dell’editore. Ma i librai ci hanno consigliato di renderci più facilmente riconoscibili e così sono nate le prime copertine, quelle curate da Raffaele Anello, dai colori vivaci, molto pop ma con un sapore un po' vintage. Pensavamo che questi due elementi potessero creare un contrasto e suscitare curiosità nei lettori. La scelta era determinata anche dal bisogno di trovare subito spazio sugli scaffali delle librerie e ce l'abbiamo fatta. Poi però ci siamo resi conto che tutta questa vivacità attirava un pubblico perlopiù giovane – che è un bene per noi, ma stava diventando un limite. E così abbiamo deciso di smorzare i toni e le copertine sono diventate via via un po' più classiche fino a quando abbiamo cambiato e deciso di puntare sulla fotografia.
La fotografia è sicuramente una mia passione, ma penso anche sia una forma più adatta alla contemporaneità, quella di cui vogliamo parlare e che possa inoltre attirare un pubblico più trasversale. Quindi nelle collane che parlano di storie ‘vere’ come This Land e Americana abbiamo deciso di utilizzare la fotografia, al naturale o elaborata. Restava da studiare una grafica per la narrativa e ho pensato che il collage fosse il linguaggio più giusto: le fotografie sono ‘pezzi di vita’ che accostati possono dare vita a qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che ancora non esiste, una finzione, come lo è la narrativa. Allo stesso tempo il collage è espressione di complessità ed è questo che ci interessa comunicare e difendere. Così ho coinvolto nel progetto Costanza Ciattini, una giovane artista con cui avevo svolto altri progetti, e adesso, ogni volta che esce un nuovo libro, lei studia per noi un nuovo collage mentre Claudia Bessi, la nostra grafica e illustratrice, si occupa di dare uniformità editoriale al tutto.
Prima accennavi ai podcast, poi alla rivista… come affiancate questi ‘formati narrativi’, alla vostra produzione editoriale ‘tradizionale’, per così dire? Come interagiscono tra loro?
Podcast e rivista sono mezzi diversi con lo stesso obiettivo: raggiungere un alto numero di lettori e fare un discorso il più completo possibile sul Paese di cui trattiamo. Per noi sono mezzi costitutivi, fanno parte della nostra impresa. La rivista è un mezzo molto immediato, crea meno soggezione di un libro, prende quei lettori curiosi che magari hanno poco tempo. Per questo, in ogni numero di Freeman’s, inseriamo una piccola sezione in cui vengono citate, insieme agli autori, tutte le opere che hanno scritto e che sono state pubblicate, in Italia e all’estero. È un servizio che offriamo ai nostri lettori ma anche alle altre case editrici e fa sì che si crei un ritratto completo di ogni autore.
Black Coffee sounds good, il nostro podcast, invece, nasce da un’esigenza pratica: quando siamo nati dovevamo farci conoscere e quindi andare nelle librerie a fare delle presentazioni, solo che non avevamo molto tempo e portare degli autori dall'America era veramente dispendioso. Allora Marta, la McMusa ci ha proposto i podcast, una cosa molto ‘americana’ ma che in Italia non era ancora diffusa. Ci abbiamo provato e devo dire che siamo stati i primi editori indipendenti in Italia a farlo. Tempo due anni e guardate cosa è successo! Il podcast è esploso. Quindi adesso, nella cedola che accompagna ogni libro, inseriamo anche il link al nostro podcast, così agenti e librai, che sono quelli che alla fine dovranno presentarlo e venderlo, sanno che lì, in venti minuti, possono trovare un sacco di informazioni e di spunti. Ogni 24 del mese ne esce uno nuovo e il nostro pubblico apprezza molto!
E parlando di social e di nuovi media, Facebook e Instagram, avete una ricetta particolare per comunicare quella che è l'anima di Black Coffee?
... la nostra ricetta è veramente artigianale, dei social ci occupiamo nei ritagli di tempo! Leonardo segue Facebook e Twitter mentre io seguo Instagram. Siamo sui social perché vogliamo parlare con un certo pubblico, comunicare con il maggior numero di persone possibile, ma devo confessare che non usiamo strategie particolari e siamo anche un po’ goffi… tanto è vero che ci hanno hackerato il profilo Instagram: avevamo 23mila follower e niente, siamo dovuti ripartire da capo. Però in fondo credo che qualcuno apprezzi il nostro approccio verace, la nostra modalità anche un po' disordinata, spontanea, di fare le cose.
Per chiudere questa chiacchierata, Sara, ci dai qualche anticipazione sulle pubblicazioni dei prossimi mesi? Cosa troveremo in libreria?
Questo è un momento importante, di ampliamento del catalogo e di consolidamento del nostro lavoro, di una maturità finalmente acquisita. Quest'anno usciranno dei libri molto belli e anche molto importanti che rispecchiano completamente la maturità raggiunta. Per quanto riguarda la narrativa continueremo con gli esordienti ma anche con riscoperte di autori ‘classici’. È uscito da poco Ruthie Fear, di Maxim Loskutoff, un giovane autore del Montana. Ruthie Fear è il nome della protagonista perché questo è un libro che parla di boschi e di natura ma lo fa dal punto di vista di un personaggio femminile molto forte. Recupereremo anche un libro culto, premio Pulitzer nel ’69, di N. Scott Momaday, 'Casa fatta di alba'. Ci interessa far parlare gli autori nativi, non parlare di nativi. Abbiamo iniziato l’anno scorso pubblicando 'Storia del mio breve corpo' di Billy-Ray Belcourt.
Podcast e rivista sono mezzi diversi con lo stesso obiettivo: raggiungere un alto numero di lettori e fare un discorso il più completo possibile sul Paese di cui trattiamo
Poi continueremo il discorso iniziato con Americana, traducendo un libro importantissimo, uscito in Italia molto tempo fa e che ha girato solo in circuiti accademici, di studi femminili e di genere, si tratta di Terre di confine - La frontiera di Gloria Anzaldúa. È un libro che parla di confini da attraversare, fisici ma non solo, confini di genere e di identità, ed è scritto metà in inglese e metà in spagnolo, proprio per ricreare nel lettore quel senso di spaesamento che è quello di chi vive in una terra di confine. Un libro che sono fierissima di portare in Italia.
E poi continuiamo il discorso sul paesaggio con This Land con un'autrice considerata la Thoreau del Wyoming. Ci piace l’idea che a raccontarci dell’Ovest, a parlarci di cowboy e di movimentazione del bestiame sia questa volta una donna. Anche qui naturalmente si inserisce il nostro bisogno di dare spazio a delle voci diverse, in questo caso femminili, in contesti familiari.
E poi c’è l’impegno che ci siamo presi di tradurre tutto Barry Lopez, un autore che ci ha lasciati nel 2019 e di cui l’anno scorso abbiamo pubblicato “Attraverso spazi aperti”. La sua grande produzione è sparsa in diversi cataloghi di vari editori e ora la moglie ha deciso di affidarla totalmente a noi. Infine c’è Dolly Parton, icona della musica country ma soprattutto musa ispiratrice di ‘Una forza della natura’, nuovo libro dell’autrice di Heartland, Sarah Smarsh, che parte dalla musica e dalle canzoni per parlarci di femminismo e classe operaia. Abbiamo veramente tanta carne al fuoco e tanto lavoro da fare.
E allora anche noi concludiamo e salutiamo Sara Reggiani felici di questa nostra chiacchierata, augurandole e augurandoci, let’s go, let’s read!
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