Mi ricordo il funerale, da vero Re.
Avvenne di sabato, non lavorativo, e quindi durò tutto il giorno.
Il popolo di Torino, centomila suoi sudditi, salirono per ore in ordinata fila la famosa scala elicoidale dello stabilimento del Lingotto per arrivare a salutare la bara.
Gianni Agnelli, l‘Avvocato, il padrone della grande Fiat, era morto a 82 anni, nella Villa Frescot sulle colline, con l’ultima benedizione del cardinale Severino Poletto.
Era il 2003, vent’anni fa, o forse un secolo fa.
Quei funerali di popolo segnarono un passaggio fatale nella storia dell’industria italiana.
Finiva un’epoca esaltante e dura, anche tragica - mai noiosa - che aveva portato l’Italia ad essere la sesta economia del mondo di cui Agnelli era stato, con innato senso dello spettacolo, il maggiore protagonista.
Nipote del senatore Giovanni Agnelli, la cui fabbrica di automobili era esponenzialmente cresciuta con il fascismo e le commesse militari, Gianni aveva ricevuto dal nonno la maggioranza delle azioni della società. Cresciuto nell’agio, nel culto dei Savoia e della Cavalleria del Re, educato però con criterio e lungimiranza, la guerra lo trovò 24enne sottotenente in Tunisia da dove, nel '43 cominciò la risalita dell’Itaia, per affacciarsi a Torino il 25 aprile 1945 su una jeep inglese. Dirà che lo colpirono la quantità di bandiere rosse lungo le strade e il profumo delle “jasmine” (sarebbero i gelsomini, ma Agnelli era snob) che le donne lanciavano ai liberatori.
Agnelli non ebbe responsabilità aziendali immediate.
Il factotum della Fiat, Vittorio Valletta, il vero importatore del modello industriale fordista in Italia, gli consigliò di “godersi la vita”, cosa che Gianni fece con enorme piacere fino ai 40 anni: giovane di charme, membro del jet set internazionale, playboy esigente e accontentato, sportivo, collezionista d’arte, ambasciatore ufficioso dell’Italia in America, Agnelli prese possesso del suo ufficio di amministratore delegato, alla vigilia dell’autunno caldo sindacale, anche questo destinato a cambiare il volto della società italiana, e ne divenne un protagonista ascoltato, politicamente affine al partito repubblicano di Ugo La Malfa, fautore di investimenti al sud, a capo della Confindustria con scelte non reazionarie.
Ma la Fiat non andava bene: lo shock petrolifero del 1973 la colpì pesantemente, così come il malessere continuo nelle officine; abituata al monopolio, la Fiat soprattutto osservò con orrore, ma senza potersi opporre, alla liberalizzazione del mercato, all’invasione giapponese, alla perdita di centralità, fino ad arrivare a dover cedere il 10 per cento delle azioni al dittatore libico Gheddafi.
Il Re gioioso e ottimista cominciò ad essere un Re preoccupato.
Pur sempre snob, sempre fashion trend setter, sempre proprietario di giornali, della Juventus e della Ferrari, Agnelli subì l’ascesa dell’”uomo nuovo” Silvio Berlusconi, che lo tolse dal trono.
Gli ultimi dieci anni del suo impero furono quelli del declino: poca o nulla innovazione dei prodotti, diminuzione netta di fatturato e profitti, una serie di amministratori delegati senza qualità, progetti continui di vendere - alla Ford, alla General Motors, alla Renault, alla Peugeot - che non si realizzavano…
Quel popolo di Torino che partecipò ai funerali - “nel bene e nel male la Fiat, e dunque lui, sono stati la mia vita” - saliva lentamente le scale, e quando arrivava in cima, accanto alla bara trovava le corone di fiori inviate dalla FIOM e dalla CGIL, e il ricordo floreale personale dell’ex presidente francese Giscard D’Estaing; i membri della famiglia Agnelli si davano il turno, e, democraticamente, stringevano le mani a tutti. Molti sussurravano: “... resterete, vero? Non è che ve ne andate via…?”
Il resto della storia non è ancora conclusa e la sapete ma - sì - se ne sono andati.
Di quell’epoca, a Torino, praticamente non resta più niente, se non la nostalgia.
Di
| Baldini + Castoldi, 2021Di
| Il Mulino, 2014Di
| Editori Riuniti Univ. Press, 2015Di
| Rubbettino, 2016Di
| Ali Ribelli Edizioni, 2018Di
| Dalai Editore, 2004Gli altri approfondimenti
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