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Piove di Paolo Strippoli

C’è chi aspetta la pioggia
per non piangere da solo

Fabrizio De André, Giuseppe Bentivoglio, Il bombarolo (da Storia di un impiegato).

Ci sono voluti almeno cinque anni di capolavori “art horror” firmati A24 e l’avvento di Netflix Italia per riportare il genere horror all’attenzione del grande pubblico del nostro paese.

Netflix aveva già tentato una sua prima mossa in tal senso, nel 2021, rilasciando su piattaforma l’originale italiano A Classic Horror Story – un “vietato ai minori” indeciso se imboccare la via del folk horror engagé o quella del meta-cinema “di evasione” –. A poco più di un anno di distanza, Paolo Strippoli – allora co-regista assieme a Roberto De Feo – ritorna al lungo horror con l’italo-belga Piove (2022). Questa volta, però, lo fa da solista.

Già vincitore del prestigioso Premio Franco Solinas alla Miglior Sceneggiatura (2017), Piove è stato scritto da Jacopo Del Giudice (nel 2019, con Strippoli, nuovamente premiato per il Miglior Soggetto con L’angelo infelice, di cui è prossimamente previsto un approdo in sala) in collaborazione con Strippoli e Gustavo Hernández Ibañez (La casa muda, 2010). Voltate le spalle a un “gotico rurale” programmaticamente di maniera e ad annesse stamberghe “dalle finestre che ridono”, Strippoli ci riprova con un orrore tutto da urbanità alienata. E lo fa nientemeno che nell’Urbe per antonomasia, Roma, una città proverbialmente accidentata da emergenze e disfunzioni amministrative.

E la premessa narrativa di Piove è proprio l’accidente meteorologico eponimo. Interagendo con miasmi cloacali che fan pensare al The Host di Bong Joon-ho, infatti, ricorrenti nubifragi inducono i romani all’allucinazione, al delirio paranoide – anticipando, in minore, i trip asteriani descritti in Beau ha paura (orig. Beau  Is Afraid, 2023) – e a una sete di sangue che non guarda in faccia nessuno.

Ma cosa vede, cosa sente chi inala i venefici vapori che si insinuano fin negli spazi domestici più intimi? A raccontarlo, il nucleo famigliare protagonista, i Morel, un padre (Fabrizio Rongione) e due figli (Francesco Gheghi e Aurora Menenti) divisi dalla dolorosa perdita della madre Cristina (Cristiana Dell’Anna). A ritornare in forma di incubo, in Piove, è infatti nientemeno che il trauma – un trauma che si attualizza in rancore e che annienta tutto e tutti. A meno che, come ribadito da un finale un po’ proclive al didascalico, i dolori soggettivi non vengano socializzati. La “filosofia” solipsista di un adolescente (Gheghi) che non vorrebbe sorridere alle cassiere né lasciare sedere i “vecchi” sull’autobus o fare i compiti perché, come sostiene, tanto “a nessuno frega un cazzo di nessuno”, in realtà, è destinata a condurre chi la propugni al collasso.

Al di là di una morale non proprio impreveduta, Piove è in grado di regalare momenti di intenso coinvolgimento visivo, grazie anche a dissolvenze memorabili (quella del volto infangato di Gheghi su sfondo di una neoplasia di palloncini bianchi, per esempio) e a una palette luci che strizza l’occhio e ai neon notturni di Refn e a un onirismo espressionistico à la Argento. Applauso doveroso, quindi, anche a Cristiano Di Nicola, Premio Curtas Festival do Imaxinario 2022 alla Miglior fotografia grazie al lavoro svolto in questo film.

Sebbene Piove non possa essere definito che discreto, tra le righe della sua sceneggiatura non è difficile scorgere i prodromi di una nuova, sperabilmente fortunata stagione di rinascimento per l’horror italiano. E in quanto tale merita di essere recuperato.

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