Nel nome del figlio è un'autobiografia nei panni di una biografia.
Il libro si apre con il racconto di un tragico incidente avvenuto il 27 agosto 1961 nel lago di Nedre Vätter, a Skinnskatteberg, in Svezia. Durante una gara di pesca, una piccola imbarcazione che avrebbe a malapena sostenuto quattro persone, esce carica di sei adulti e due bambini, tra cui anche un padre. Il figlio di quest’ultimo, voce narrante dell’opera, ricorda chiaramente l’urlo straziante della zia a notte fonda, quando le fu detto che la barca era stata ritrovata capovolta. Nessuno degli otto passeggeri riuscì a salvarsi. Dopo sei capitoli conosciamo il nome del padre, Brent Larsson, e capiamo quindi che il figlio è effettivamente l’autore.
«I fatti, direttamente dalla memoria» questo l’incipit del libro, un lento e progressivo recupero memoriale: ciò che il figlio ricorda di quella giornata, ciò che ricorda della sua infanzia prima della morte del padre, e, soprattutto, cosa ricorda del padre; sono solo sei i ricordi che ha di lui, più uno della sorellina, contro invece i numerosissimi della sua infanzia: rimozione freudiana? Probabilmente sì, ma poco importa.
Cosa significa vivere senza padre e convivere con pochi ricordi del passato, senza radici e nessuna voglia di trovarne di nuove? Björn Larsson firma un romanzo intimo e doloroso, un omaggio al padre prematuramente scomparso.
Non mi è stato subito chiaro cosa volesse essere questo libro: la storia d’un uomo che muore? Le avventure di un figlio che cerca di ricostruire cosa fosse successo quella domenica pomeriggio al padre? (I fatti si conoscono, le dinamiche, non senza sforzi, furono ricostruite; ciò che si comprende molto poco è perché gli otto non abbiano valutato i rischi della situazione).
Cosa vuole essere questo libro? Ad un certo punto forse prova ad essere la vita del padre, morto troppo presto - all’epoca dell’incidente aveva solo ventinove anni - magari con tanti rimpianti, con tanti sogni ancora non realizzati. Una sorta di riscatto. Perché il figlio è uno scrittore, e non mancano profonde riflessioni anche sulla scrittura, sul ruolo che questa ha avuto nella sua vita, sugli scrittori che ha amato, citando nomi come Harry Martinson, Per Olov Enquist, Marcel Proust, Simone de Beauvoir, George Perec. Tutti scrittori che hanno ragionato come lui sulla memoria, sull’ereditarietà.
«A questo punto verrebbe spontanea la domanda: il figlio, adesso, mentre scrive, lo vorrebbe che il padre ci fosse, che risorgesse dai morti? Il figlio solleva la penna dal foglio e riflette. Non è ovvia la risposta? Ma certo, per il figlio lo è. No.»
Bisogna dare un po’ di spazio alle pagine per capire di star leggendo la storia della vita di un uomo, uno dei tanti, non di Larsson, ma di un figlio che ha perso un padre, che non ha mai avuto l’amore di una madre, la storia di chi per tutta la vita si è cercato, e che da sempre si è chiesto se sarà capace di capire chi è, pur non avendo mai conosciuto da chi proviene.
«Come si fa a vivere la propria vita avendo alle spalle così tanti vuoti di memoria sulla propria infanzia e adolescenza, sapendo così poco delle persone che ci hanno messo al mondo e di chi le ha precedute? Come dovrebbe porsi uno come lui di fronte al fatto di non avere padre, e in parte nemmeno una madre? Non dal punto di vista razionale, ma da quello emotivo.»
Un figlio che cerca sé stesso in quanto figlio di quel padre, appassionato di geologia e immersioni, e di quella madre. Cosa è davvero suo, e cosa invece deriva dal disperato bisogno di somigliare al padre, di conoscerlo, di vivere la sua vita anche per lui? Cosa di ognuno di noi è davvero nostro, cosa invece ci è dato dai nostri genitori, insieme al colore degli occhi? Impossibile da stabilire, ma quello che possiamo fare è accettare che ognuno di noi è irrimediabilmente figlio dei propri genitori, conoscendoli o meno, amandoli o no.
«L’interrogativo al centro della narrazione, insomma, è in che misura siamo liberi di scegliere chi siamo e chi diventare.»
È un libro che finisce per essere la vita di tutti.
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