Non si rivolgeva direttamente al fisico nostrano Antonino Zichichi, ma l'invito pubblicato dall'antropologa Cecilia Tomori all'inizio di novembre sulla rivista scientifica Nature ("Scienziati, non alimentate la macchina del dubbio") di certo vale anche per lui e per tutti i negazionisti in tema di clima, di danni del tabacco, o della elevata letalità del Covid-19 che vantano un qualche curriculum scientifico di rilievo.
Il dubbio è un ingrediente essenziale della scienza, ma negli ultimi anni è diventato un potente grimaldello in mano a chiunque abbia un prodotto da vendere, o un interesse economico da difendere
L'elenco è lungo, come sa bene l'autrice di suddetto invito, che all'Università Johns Hopkins di Baltimora si occupa di sanità pubblica e studia le campagne di disinformazione sull'allattamento al seno che usano testimonial con sontuose credenziali scientifiche per promuovere l'acquisto di latti artificiali di ogni tipo. E ancor meglio di lei lo sanno gli storici della scienza Naomi Oreskes e Erik Conway, che si sono chiesti come sia possibile che scienziati rispettabili – e rispettati – inizino a cavalcare pubblicamente tesi francamente antiscientifiche, senza cambiare idea neanche quando il consenso della stragrande maggioranza dei colleghi scienziati va in tutt'altra direzione.
Per decenni, l’applicazione delle misure a tutela della salute delle persone e dell’ambiente è stata ritardata da scienziati, politici, apparati industriali e media compiacenti. "Mercanti di dubbi" spiega come hanno fatto, e cosa occorre fare per difendersi dalla manipolazione.
La loro indagine, iniziata anni fa studiando chi negava i danni del fumo di tabacco e poi ampliata scoprendo che gli stessi meccanismi e in gran parte le stesse persone erano all'opera anche per negare il ruolo dell'uomo nel cambiamento climatico, rappresenta oggi uno degli esempi classici studiati dalla nuova disciplina – a cavallo tra filosofia, sociologia, storia della scienza e giornalismo scientifico d'inchiesta – che è stata battezzata Agnotologia. Analizza la creazione, quasi sempre consapevole, di ignoranza, con l’uso di alcune strategie ricorrenti: l'insistenza sui limiti metodologici di alcuni ambiti di ricerca, come l'epidemiologia, o la promozione sui media di studi che alle volte sono effettivamente più rigorosi, ma prendono in esame aspetti del tutto marginali, che però vengono presentati come la causa principale del danno, così da sviare l'attenzione. Per esempio, l'esposizione prolungata al radon come causa principale del tumore del polmone o l'attività solare invocata da Zichichi come causa preponderante del riscaldamento globale.
Nel libro Mercanti di dubbi, Oreskes concludeva che non occorre che gli scienziati siano in malafede per insistere su posizioni antiscientifiche: spesso basta una forte componente ideologica, accoppiata a un fraintendimento generalizzato di che cosa sia il metodo scientifico. Uno dei cortocircuiti che abbiamo visto all’opera con la pandemia come con il cambiamento climatico è quello tra il metodo scientifico astratto e, per esempio, i modelli basati su simulazioni al computer, che dipingono scenari probabilistici.
Nel suo ultimo libro Perché fidarsi della scienza? Oreskes – che insegna storia della scienza a Harvard – è partita proprio dal punto interrogativo, sincero e nient'affatto retorico, per giungere alla conclusione che non esiste un metodo scientifico unico a cui ricondurre tutti gli altri, bensì tanti diversi metodi scientifici, ciascuno adattato all'oggetto di studio e applicato storicamente con maggiore o minore rigore. Quello che li accomuna tutti sono le pratiche sociali che portano critiche, discussioni e correzioni, tanto più efficaci quanto più diversificati sono i punti di vista coinvolti.
Ripercorrendo la storia e la filosofia della scienza degli ultimi due secoli, Oreskes mette in dubbio l'esistenza di un unico, aureo metodo scientifico, ma non rinuncia per questo a difendere la scienza dai suoi detrattori. La superiore affidabilità delle tesi scientifiche deriva, nella sua visione, dal processo sociale che le produce.
Secondo la storica della scienza – che ha un passato anche accademico di geologa – la fiducia nella scienza non può che passare attraverso la costituzione di comunità di ricerca “epistemicamente diversificate”, capaci anche di individuare e neutralizzare i sempre più diffusi conflitti di interesse.
In altre parole, la credibilità presente e futura dello scienziato-autorevole-tipo (maschio, occidentale con pelle e capelli bianchi) dipende da quanto imparerà ad ascoltare con attenzione le variegate voci delle colleghe e dei colleghi finora sopraffatte dai tromboni troppo sicuri di essere i custodi di un astratto metodo scientifico, unico e solo.
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