Heimat è un vocabolo tedesco che non ha un corrispettivo nella lingua italiana e indica il territorio in cui ci si sente a casa propria perché vi si è nati, vi si è trascorsa l'infanzia o vi si parla la lingua degli affetti. A me piace pensare che questo termine si riferisca al luogo del cuore, e tante volte nella vita mi è capitato di identificarlo con la montagna ai piedi della quale sono nata.
Ecco perché sono particolarmente attratta dai libri che parlano di monti. Ultimamente sono molto fortunata perché ne sono usciti parecchi e dopo Lo chiamavano Alpe Madre di Loris Giuriatti (edito Rizzoli), Il Moro della cima di Paolo Malaguti (edito Einaudi) e Quattro stagioni per vivere di Mauro Corona (edito Mondadori) ho potuto finalmente leggere il tanto atteso libro di Matteo Righetto La stanza delle mele (edito Feltrinelli).
È l'estate del 1954, Giacomo Nef ha undici anni e con i due fratelli maggiori vive dai nonni paterni a Daghè, sulle pendici del Col di Lana, nelle Dolomiti bellunesi. I bambini sono orfani e l'anziano capofamiglia li tratta con durezza e severità, soprattutto il più piccolo. Il nonno è convinto infatti che Giacomo sia nato da una relazione della nuora in tempo di guerra e lo punisce a ogni occasione, chiudendolo a chiave nella stanza delle mele selvatiche. Lì il ragazzino passa il tempo intagliando il legno e sognando l'avventura.
La montagna di cui ci parla l'autore non è quella idilliaca delle belle passeggiate domenicali ma una montagna che nasconde anche lati oscuri come il bosco nero, il Bosch Negher, dove l'undicenne Giacomo è mandato dal nonno, durante un intenso temporale, per recuperare una roncola che il vecchio aveva dimenticato il mattino.
Siamo nel 1954, la guerra è terminata da pochi anni, la vita in montagna è rude, dura, piena di tanto lavoro e poca soddisfazione, con pochi gesti di tenerezza, riti crudeli e bigottismo. In quello stesso bosco, da cui gli abitanti del posto stanno solitamente alla larga perché ricorda loro brutti misteri e uccisioni avvenute durante la guerra, Giacomo vede un morto impiccato e dalla paura scappa lasciando a terra l'oggetto che doveva recuperare. Quella macabra visione lo segnerà per tutta la vita.
Giacomo vive con i due fratelli presso la casa dei nonni a Daghè, un piccolo paese sulle pendici del Col di Lana, nelle Dolomiti bellunesi. I genitori sono morti e Giacomo in particolare è preso di mira dal nonno, un uomo rude e burbero.
"Muoviti bastardo!” gridò il vecchio da lontano voltandosi verso il nipote. Quando era arrabbiato lo chiamava sempre in quel modo. Era convinto che il più piccolo dei nipoti fosse nato da una relazione di sua nuora fuori dal matrimonio e non mancava mai di ribadire quel suo pregiudizio.
Quando il nonno è arrabbiato non manca di picchiarlo e poi di rinchiuderlo nella stanza delle mele, il luogo dove nei paesi delle Dolomiti venivano conservate le mele per poi poterci fare il sidro. Da un luogo che doveva essere una prigione Giacomo riesce però a capire sé stesso e lo fa scavando nel legno e mettendo le basi di quella che diventerà la via per conquistare la propria libertà e la propria arte: la scultura del legno. Riuscendo a intagliare piccoli pezzi di albero, sentendo l'odore che sprigionano i diversi legni appena scalfiti, dal ciliegio, al cirmolo, all'abete, saprà riconoscere e ritagliarsi la propria strada nella vita.
Gli tornò in mente la statuetta che molti anni prima aveva nascosto sotto le assi del pavimento nella stanza delle mele. Finalmente quelle tenebre che l'avevano tenuta avvolta per tutti quegli anni si stavano aprendo per fare entrare qualche barlume di verità. Quella statuetta era ancora viva.
La stanza delle mele ci trasmette un messaggio forte e potente: la vita può essere dura, difficile e aspra ma se abbiamo dentro di noi la perseveranza di cercare i nostri sogni, se ci crediamo veramente, allora saremo davvero noi stessi e non avremo più paura.
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