Quasi un romanzo di iniziazione – ma in chiave horror - potrebbe definirsi Gli unici indiani buoni di Stephen Graham Jones, edito da Fazi per la collana Darkside, nella traduzione italiana di Giuseppe Marano.
Per l’autore di Midland, Texas, ancora poco noto al grande pubblico italiano se non per una raccolta di racconti dell’orrore (Albero di carne, edito da Racconti), si tratta dell’ultimo di decine di romanzi già pubblicati negli Stati Uniti.
Una comfort zone più che un genere prediletto per Jones, che oltre alla passione per l’horror con il noto romanziere di Portland, condivide curiosamente anche il nome. Stephen King ha infatti apprezzato le pagine di Jones e in particolare quella che si è sbilanciato a definire «la più terrificante partita di basket della storia».
Una spietata caccia all’animale che si tramuta in una terrificante caccia all’uomo: vincitore dei più importanti premi nell’ambito del genere e campione di vendite, Gli unici indiani buoni è un horror mozzafiato in cui una fine analisi sociale si fonde perfettamente con la tensione di una storia da incubo.
Ma veniamo al libro.
Quattro i protagonisti, Lewis, Gabe, Ricky e Cassidy, amici sin da piccoli e cresciuti insieme in una riserva ai confini con il Canada.
«Una merda, una noia, un nulla» viene descritto il posto della loro infanzia, da cui Ricky a un certo punto decide di andar via, poco tempo prima di trovare la morte assassinato fuori da un bar in una rissa tra ubriachi, mentre è in viaggio in direzione North Dakota.
E poi c’è Lewis, che tormentato più di tutti dal senso di colpa per una bravata che i quattro amici ricordano ancora dopo dieci anni come il «Classico del Ringraziamento», decide di andarsene dalla riserva per sposare Peta, una donna bianca, con cui conduce una vita serena e anonima.
Gabe e Cass sono gli unici due rimasti nella riserva. Vivono ai margini e di espedienti ai confini della legalità. Cass convive con un’indiana Crow, mentre Gabe è il padre di Denorah, la giovane promessa del basket, che avrà un ruolo chiave nel romanzo.
La scomparsa alquanto misteriosa di Ricky – liquidata frettolosamente dai titoli dei giornali locali come la solita rissa in cui è l’indiano a lasciarci le penne - è solo il prologo di una lunga serie di massacri efferati. All’origine di tutti, una battuta di caccia di dieci anni prima, in cui i quattro amici si erano spinti illegalmente in un territorio della riserva dove potevano cacciare solo i Piedi Neri più anziani. L’episodio, centrale da un punto di vista narrativo, decreta per i giovani protagonisti la fine dell’innocenza e la rottura con le tradizioni dei padri. Per i quattro, e in particolare per Lewis, quella battuta di caccia ritorna come un tormento da cui non riesce a liberarsi.
Dieci anni dopo, ricorda ancora lucidamente la visione dei wapiti, poco prima di farne una strage.
Tutti quei corpi enormi e perfetti stagliati contro il bianco assoluto erano uno spettacolo che non avevo mai osservato così da vicino. Almeno non con un fucile tra le mani, e senza turisti intorno a scattare foto
Ma il senso di colpa che divora Lewis a distanza di anni, è in particolare per aver ucciso una giovane femmina di wapiti incinta. La descrizione di quegli istanti, chiave per l’interpretazione complessiva del romanzo, è un crescendo di tensione narrativa. La prosa si flette sotto il peso emotivo di questo episodio che tormenta Lewis nonostante siano trascorsi degli anni e si contorce come il corpo vigoroso della femmina di alce, che per proteggere il cucciolo che ha in grembo, non si arrende ai primi colpi di fucile sparati dal giovane Lewis.
Nel romanzo, trasgredire alle leggi umane della propria comunità, si rivela pagina dopo pagina una colpa da poco rispetto alla violazione delle leggi di natura. Perché inaspettatamente la vendetta perfetta arriva dopo anni, con la spietatezza di una furia che uccide anche chi è innocente e assume le sembianze inquietanti di una visione che assilla tutti i protagonisti.
Lewis sente la minaccia di una presenza sinistra in casa propria e intuisce che in qualche modo ha a che fare con quella giovane wapiti che aveva ingiustamente ucciso. E non era bastato dare una degna sepoltura al cucciolo che portava dentro e non lasciare sprecato neppure un centimetro dell’animale abbattuto per calmare il desiderio di vendetta della femmina wapiti, tornata nella vita di Lewis nel corpo di una donna dalla testa di alce.
La visione perturbante di questa creatura zoomorfa diventa tanto vivida e potente da mandare Lewis in uno stato confusionale. In pieno delirio arriva a uccidere la moglie Peta, scambiata per la wapiti assassinata quel freddo novembre di dieci anni fa sulla neve. La paranoia di Lewis perseguitato dal senso di colpa diventa il punto di vista da cui osservare i fatti, tanto da far ritrovare il lettore nell’incapacità di comprendere cosa sia vero e cosa soltanto immaginato.
Poi una delle zampe posteriori di Harley ha una contrazione, stranamente allo stesso ritmo con cui quella wapiti batteva le palpebre sul pavimento del soggiorno. La wapiti che non era né morta né viva sul pavimento del soggiorno di Lewis… che non c’era proprio
Lewis però non è la prima vittima perché il primo ad esser fatto fuori dalla wapiti tornata per vendicarsi è proprio Rick. Qualche minuto prima di morire, infatti, aveva avuto la visione dell’animale che lo aspettava tra i pick-up parcheggiati nello spiazzo del bar devo è rimasto secco. La furia vendicativa della wapiti è implacabile: arriva il turno di Lewis e poi di Gabe e Cassidy, massacrati durante la “sudata”, un rito tribale per onorare i defunti che i nativi celebravano in una tenda. Ma l’apice viene raggiunto solo durante la partita di basket con Denorah, la figlia di Gabe e Trina.
L’evocazione del soprannaturale, il tema dell’uomo contro la natura, la ricerca della propria identità nella società in cui si è cresciuti prima e quella in cui si desidera trovare il proprio posto poi, sono al centro del romanzo di Jones, Blackfoot come i suoi personaggi, che lottano per uscire dai confini della riserva e farsi spazio in una società ostile: bianca e colonialista.
Quanto all’episodio di quella battuta di caccia intorno a cui ruota tutto il romanzo, Jones ha dichiarato di aver voluto ricordare un altro fatto sanguinario: la strage del 1870 compiuta dall’esercito americano contro i Piedi Neri a Baker, nel Montana. Che sia fiction o storia, la violenza ritorna nelle sue pagine come legge di natura, in un ciclico gioco di ruoli tra vittime e carnefici: i wapiti, i Piedi Neri, poi i bianchi e così all’infinito.
E se da un lato il titolo fa il verso al famoso detto «Il solo indiano buono che conosco è l'indiano morto», dall’altro rivela il desiderio di autoaffermazione dei personaggi. Come in un romanzo di iniziazione, infatti, per i quattro protagonisti avventarsi sul branco di wapiti e violare le leggi della comunità è una sorta di battesimo del fuoco: una prova da veri uomini.
«Che sensazione si prova a procurare la carne all’intera tribù?» si chiede a un certo punto Ricky.
Ce l’avevano quasi fatta quell’ultimo Ringraziamento. Lui, Gabe, Lewis e Cass ne avevano tutte le intenzioni. Per una volta sarebbero stati anche loro quel tipo di indiani; avrebbero mostrato a tutta Browning come si faceva… ma poi era arrivata la neve grossa ed era andato praticamente tutto a catafascio
L’esito è disastroso. Alla fine sono condannati dalla propria comunità, mai veramente accettati dalla società dei bianchi e perseguitati da una presenza sinistra che incarna la natura tutta, che si riprende ad ogni costo ciò che le spetta.
Lo stesso Jones non ritrae il romanzo a una lettura metaforica in chiave ambientalista. Purché il lettore resti con il fiato sospeso e gli si accapponi la pelle dalla prima all’ultima pagina.
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