C’è un Noi e poi, più indietro nella memoria, ci sono Loro. Ad occupare tutto lo spazio restante ci sono gli oggetti che della memoria sono l’osceno feticcio. In questa “autobiografia impersonale” le parole e le cose ci piovono addosso come una catastrofe contemporanea. Le parole di cui si serve l’autrice per mettere sulla carta la sua storia ma anche la storia di tutti, raccontata infatti usando la prima persona plurale, arrivano corrosive e di fatto corrodono. La sua è una memoria che non salva la storia, ma che invece l’abbatte, come si fa con un muro, scegliendo di affondare buona parte di ciò che ha vissuto dalla nascita, nel 1940, fino ad oggi.
Dal Premio Nobel per la Letteratura 2022, una «autobiografia impersonale» che immerge anche la nostra esistenza nel flusso di un'inedita pratica della memoria, riuscendo nel prodigio di «salvare» la storia di generazioni coniugando vita e morte nella luce abbagliante della bellezza del mondo.
Noi che avevamo abortito nelle cucine, che avevamo divorziato, che avevamo creduto che i nostri sforzi per liberarci sarebbero serviti ad altre, noi provavamo una grande stanchezza. Non sapevamo più se la rivoluzione delle donne ci fosse stata davvero. Continuavamo a vedere il sangue anche dopo i cinquant’anni. Non aveva più lo stesso odore né lo stesso colore di prima, una specie di sangue illusorio. Ma quella scansione regolare del tempo che potevamo conservare fino alla morte ci rassicurava. Indossavamo jeans, pantaloncini e magliette come le quindicenni, come loro dicevamo «il mio moroso» per parlare del nostro amante regolare. Invecchiando non avevamo più età.
Annie Ernaux, Premio Nobel per la Letteratura nel 2022, è una delle voci più autorevoli del panorama culturale francese, consacrata nel 2008 dalla pubblicazione dei suoi scritti presso Gallimard. Da quel momento la sua anomala autobiografia ha preso ad assolvere una funzione alta, sociale, divenendo voce collettiva, spirito di coloro che hanno visto l’inizio e la fine di questi anni.
Un romanzo-mondo nelle intenzioni dell’autrice, un libro che ambisce ad essere emblema del passato e che invece, negli inattesi risultati, diventa prova cogente dell’impossibilità di liberarsi della sua presa. Nella dialettica asfittica tra questo Noi, personaggio ricorrente, e le cose che ottundono più che chiarire, chiudono varchi anziché aprirli, leggiamo tutta l’assurda impotenza del presente.
Una scrittura che si può tradurre con un eccesso di immagini e che, come suggerisce Marc Augé, rende impossibile il futuro, si riflette in un romanzo ipertrofico, egotico, che dice senza spiegare nulla.
La società adesso aveva un nome, si chiamava «società dei consumi». Era un fatto assodato, una certezza sulla quale, se si fosse contro o a favore, non c’era bisogno di tornare a discutere. L’aumento del prezzo del petrolio lasciava interdetti, ma solo per poco, la tendenza generale era quella di spendere, di appropriarsi in maniera risoluta delle cose e dei beni non necessari. Compravamo un frigo a due porte, una dinamica Renault 5, una settimana al Club Hotel a Flaine, un monolocale sul mare a La Grande-Motte. Cambiavamo televisore. Sullo schermo a colori il mondo era più bello, gli interni delle case più invidiabili. Scompariva la distanza che il bianco e il nero instaurava con l’universo quotidiano, del quale era il negativo austero, quasi tragico.
Se tutto questo ha fatto uno schermo a colori, molto altro hanno fatto lo yoga, l’omeopatia, la soia, un eskimo blu, Simone de Beauvoir, le boutique, i film, le canzoni e tutte le altre innumerevoli cose che ci piombano addosso leggendo. Un libro che è figlio di questa contemporaneità inutile, tragicamente inutile, come una premonizione che non si avvererà mai, come una poesia vecchissima, persa.
Recensione di Annalisa Veraldi
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