Scelti per voi

Génie la matta di Inès Cagnati

Sono di nuovo qui. A rifornire scaffali salutando ogni inquilino. Per un libraio credo sia così. Oltre al blando atto meccanico, qualsiasi libro acquartierato nelle ceste è un esemplare che rimette piede nel suo habitat. Più o meno popolato a seconda del periodo.
Ci sono titoli che abbandonano il nido giusto il tempo di un giro di corriere. Perché quando si allontanano, solcano un’attesa, scavano vuoti con un dito d’assenza.
Ci sono i nuovi arrivati, che s’insinuano tra gli altri, con timidezza variabile.
E ci sono quelli che quando sbarcano tra le tue mani innescano un fremito. Non lo hai ancora letto, non puoi saperlo davvero. Eppure, padroneggi alla perfezione l’idea di volerlo. Dove sia Cupido in quel momento non è dato accertabile, ma si tratta di un colpo di fulmine.

E io da questo libro sono stata folgorata. Se potesse comparire con un biglietto d’avvertenza in allegato, nel suo caso sarebbe: “Questa non è una storia facile. Astenersi perditempo.”

Dentro Génie la matta, così come nella vita di Inès Cagnati, c’è ben poco di liscio. L’autrice, figlia di contadini veneti migrati in Francia, ci schiaffeggia con la potenza di un romanzo. Una zolla di amaro e sconfitta. 

Génie la matta
Génie la matta Di Inès Cagnati;

Questo romanzo è la storia dell'amore, lancinante e assoluto, di una figlia, Marie, nata da uno stupro, per la madre, Eugénie detta Génie, che, ripudiata dalla famiglia e respinta dalla comunità dopo che ha generato una bastarda, si è murata nel silenzio e nella lontananza. Una madre che sa dirle soltanto: «Non starmi sempre tra i piedi», che raramente la abbraccia; una che tutti, in paese, bollano come matta e sfruttano facendola lavorare nei campi e nelle fattorie in cambio di un po' di frutta, di un pezzo di carne. Ma l'amore di Marie è impavido, indefettibile - va oltre il tempo.

La vicenda è quella di Eugénie, cresciuta in un ambiente agiato e rispettabile. A detronizzarla dalla sua quiete, arriva uno stupro. Génie viene violata. Ed è lei quella sporca. È lei la vergogna ambulante che ricorda col suo ventre quant’è grasso quell’insulto.
La ragazza non torna più a casa. Quella non è più casa. Non parla più, non sorride. Ed è fin troppo ovvio etichettarla a dovere. È una povera pazza, infamata senza sforzo, perché non vale più dei suoi stracci. Comincia a vagare, cercando lavoro tra i campi.
Munge le vacche, sarchia il granturco, raccoglie le pesche, si presta al dominio delle stagioni, che scandiscono i mesi come una nenia. Con gli stivali nel pantano, i capelli intrisi di vendemmia, le mani ammalate di terra crudissima, quella donna così giovane e già stanca di tutto, diventa madre.
A narrare di lei, è proprio sua figlia, Marie, che venera ogni sua fatica, che la scorge da lontano e fruscia da foglia al pensiero che scompaia e la lasci da sola per un sempre già cominciato. La brama, la rincorre. E quando la raggiunge si sente solo dire: «Non starmi tra i piedi».
Si accasciano l’una sull’altra, quasi fossero cose fredde e dimenticate, sfrante da un altro giorno ingrato. Spesso Marie sente Génie che piange. Perché ha smesso di desiderare. Perché ha le speranze più consumate dei talloni. «Non ho avuto niente io», non fa che ripetere. E quel niente ci dilania. Affanna i polmoni, li fa quasi implodere. Quel niente che è detonatore di milioni di vite invisibili.

Quel niente che ci offende e ci incanta. Dell’asprezza dei suoi ritmi, del prodigio straziante della natura. L’ombra ruvida dei tigli, il viola ipnotico della paulonia, la bellezza brutale e invincibile di una scrittura rara.

Ogni tanto raccontava una storia. Sempre la stessa, quella delle tre fanciulle, Rose, Marguerite e Violette. Le fiamme guizzavano alte. L’orco l’avrebbe divorata o no, la tenera Violette? Una sera o l’altra l’orco avrebbe divorato la bella fanciulla. Dipendeva da lei. Spiavo il suo viso chino sul lavoro a maglia. La sua voce monocorde regolava gli eventi di quella storia mai finita. Quando smetteva di parlare, posava il lavoro. A volte mi accarezzava una guancia. Allora i suoi occhi chiari acquietavano i fantasmi.

Anche questa è una favola scura, brulla, vischiosa.
È un viaggio zuppo di miseria. Una miseria che è miniera. Di demoni e sogni spiumati. Della lingua di fango che insegue il futuro come una preda.
Ci sono frangenti in cui si scuce uno squarcio. Génie resta di nuovo incinta di un uomo che stavolta sembra proteggerla; Marie incontra Pierre e una luce la trafigge di promesse: «Ti porterò laggiù dove sono nato, sui sentieri di aranci selvatici dove la salvia gigante grida rosso e tu cammini, e sprofondi e ti perdi».
Ma quelle esistenze sono un frutto non commestibile. Basta meno di un morso per accorgersene. Ed entrambe non fanno che tornare, come una cantilena, nello stomaco nero del loro destino.

Ci sono tanti echi in questa storia. La durezza ineluttabile dei libri di Ferdinando Camon, in particolare Un altare per la madre, la forza evocativa di Sophie Daull e José Luìs Peixoto, i graffi selvaggi di Andrea Abreu nella sua Pancia d’asino. Il perenne sommerso “ciclo dei vinti” che ci piace ignorare, a volte anche nei libri. Eppure, fa questo la letteratura: offrire bellezza e aria e scrittura anche a ciò che ci ferisce. E diventare, per un attimo, un terreno di riscossa.

Le recensioni della settimana

La posta della redazione

La posta della redazione

Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone?
Scrivi alla redazione!

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente