A volte spero che nessuno dica niente. Ma poi sono io il primo a parlare. Per esempio, stasera. Rieccomi qui appoggiato al bancone (adesso si può di nuovo fare, e lo bacerei anche, tanto è pulito), mentre nella playlist del Secco passa A Forest, dei Cure. Tu-tum Tu-tum Tu-Tum Tu-tuuum...
Ci scambiamo qualche sguardo di traverso, fra avventori fuori e dentro il locale, e con i due soci-baristi del miglior posto dove bere e chiacchierare sui navigli, e quindi nel mondo. Sembra che la solennità del pezzo prevalga e ci azzittisca. Ma non resisto, io: "Certo, i giri di basso di Simon Gallup..."
Bel colpo, anche se basso (ah, ah... battutona). "I Cure mica sono soltanto Robert Smith," aggiungo. Tanto per.
Me la sono voluta. Parte una discussione sui migliori bassisti del post punk, con l'assunto che sia stata la grande stagione delle quattro corde. Gallup si aggiudica l'ambita medaglia del "più sottovalutato", con consenso unanime. Mick Karn dei Japan era il più à bravo, tecnicamente: giusto. Mi trattengo dal nominare i Dali's Car, formati da Karn insieme a Peter Murphy dei Bauhaus, perché perfino la vanità e il nerdismo hanno un limite.
Ai voti (sempre che quella fosse una mano alzata e non una richiesta di versare ancora), alla fine vince Peter Hook come migliore assoluto, sebbene ci sia chi lo consideri "soltanto" il bassista dei Joy Division. Da qui, l'amichevole diatriba slitta sul valore dei New Order, e davvero mi sembra di essere tornato ventenne. Manco a farlo apposta, poco dopo in playlist passa Blue Monday. Esiste la banalità del bene, ogni tanto. "La rivoluzione si fa anche ballando," commenta Davidone. E non c'è altro da dire.
Tutte queste disquisizioni mi hanno messo rovelli in testa. Poco dopo, moderatamente sobrio, cammino lungo il naviglio collegando puntini.
Prima di tutto, mi secca che Steven Severin, bassista dei Siouxsie and the Banshees, sia stato nominato soltanto di sfuggita. E da Ivan, prima di me.
Da puntino, a puntino: con i Siouxsie aveva suonato anche Robert Smith, in un paio di dischi... ma quali? Nocturne (il live) e Hyæna, okay. Da qualche parte all'inizio degli anni Ottanta.
Però ecco il collegamento migliore: a un certo punto - anzi, puntino - Smith e Severin avevano messo su un fuggevole progetto insieme. Loro due e una tizia che avevano pescato chissà dove (si chiamava Janette Landray: sì, ho googlato), cantante nell'unico album generato dalla band. Mi infilo da Dischivolanti e, contro le leggi delle probabilità, lo trovo. In vinile, addirittura. Non costa nemmeno tanto. Eccolo qua. Si intitola Blue Sunshine. Devo averlo posseduto già, da ragazzo. Riconosco la copertina.
E riconosco la musica, tornato a casa. C'è quella vena psichedelica all'inglese, fin dalla suddetta copertina che rimanda a sottomarini gialli e floyd rosa (oggi ho proprio una bella vena umoristica), ovviamente tutto in un oscuro, torbido impasto di new wave e post punk, sempre che non siano la stessa cosa. In quarant'anni, non ho ancora deciso.
Sembrava roba morta e sepolta, con il suo bagaglio di teschi e arredi funebri. E invece ha lasciato il segno, messo radici. Tant'è che subito dopo metto sul piatto A Hero's Death, dei Fontaines D.C., con quei giri di basso (e non soltanto quelli). Perché anche il 2020 ha fatto cose buone.
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