Sconfinando

Una vita "oltre"

Illustrazione di Gaetano Di Riso, 2021

Illustrazione di Gaetano Di Riso, 2021

Ex detenuto.  Punto. È questa, ineluttabilmente, inesorabilmente, la prima cosa che tutti dicono, che tutti pensano, che noi pensiamo, quando incontriamo uno che è stato ‘dentro’.  Anche se non sappiamo come e perché. Come è finito in carcere? Perché? Quando è uscito? Cosa ha fatto? Cosa sogna di fare? Non importa, uno che è stato dentro prima di tutto è un ‘ex detenuto’. E per uscire da questa ‘gabbia di parole’ bisogna davvero provare a sconfinare, provare ad andare oltre, oltre i nostri pregiudizi, oltre le nostre categorizzazioni. Ci proviamo.

Mauro, Armuzzi, 39 anni, quasi 40. È nato a Ostia, arrestato e finito in carcere per narcotraffico internazionale, è fuori per motivi di salute legati al covid, ma ha ancora una parte di pena  da scontare. Anche Carlo Bna è stato in carcere per narcotraffico ma ha finito di scontare la sua pena. Mauro e Carlo si sono conosciuti nel 2006 a Barcellona, anche se sembra siano amici da sempre. Insieme hanno condiviso tanto, tutto, gli anni dello sballo, di una vita fatta di droga, di feste e trasgressioni, una vita al limite. Poi è finita. Sono stati arrestati insieme e insieme sono finiti a Rebibbia.  Dopo comincia la loro vita ‘oltre’.

Dal carcere iniziano il loro lavoro con la musica e il teatro, incontrano la letteratura americana, nasce la loro collaborazione con Jail House Rock, che è una canzone cantata da Elvis Presley nel 1957 ma che è anche il nome di un programma di Radio Popolare in onda da più di vent’anni e che racconta di musica, carcere e diritti. Poi è il momento dell’incontro con Susanna Marietti e l’Associazione Antigone che finisce per cambiare definitivamente le loro vite. Da questo incontro prendono avvio una serie di collaborazioni, scambi e rapporti umani, prima tra tutti con e grazie a Giorgio Poidomani, manager di lungo corso prestato al volontariato e direttore del giornale radio di Rebibbia. E poi ancora arrivano i De Core, il duo musicale (e di vita) con il quale Mauro e Carlo hanno partecipano l’anno scorso a Sanremo Rock, arrivando in semifinale.

Quante parole ci vogliono per raccontare la vita di un uomo? E di due? Tante, e ancora non bastano. Ma la storia di Mauro, la storia di Carlo, le cose che ci hanno raccontato con pudore e passione “ci portano a riflettere sulle reali possibilità che ha ognuno di noi nella dura salita che è la vita, questo scrive Carlo Bna, nella sua prefazione a Santa Suerte, Una Vita Underground, il libro scritto da Mauro Armuzzi. E noi non possiamo che essere d’accordo.

Santa suerte. Una storia underground

La storia maledetta di Mauro. Raccontata in prima persona e dalla cella di un carcere: una vita fatta di trasgressione assoluta, attrazione fatale per il male, sfida continua alla morte. Un biglietto per l'inferno che sembra di sola andata, fra droghe, sballo e malavita.

Ciao Mauro, ci piacerebbe cominciare questa storia raccontando chi sei oggi e quali tappe hai attraversato per arrivare dove ti trovi adesso.

Oggi, rubando le parole a Shantaram, ‘mi sento l'uomo di pace che, con tanto ritardo, ho cominciato ad essere’, vivo come una rinascita, da un punto di vista sociale e culturale. Mi ritengo fortunato, non sono più un detenuto (anche se c’è tanta discriminazione da questo punto di vista) e oggi sono qui, a parlare con voi. È più di un anno e mezzo che sono fuori, mi sono trovato a casa, senza potere uscire e ho iniziato a pensare a cosa potevo fare da solo, col computer.  Così ho ripreso la mia rete di contatti e per l'ambizione di tornare a vivere, grazie alla nuova legge, ho aperto la mia società, produciamo CBD, cioè la marijuana light. (In Italia la vendita regolamentare di questi prodotti è legale a seguito della legge 242 del 2016, entrata in vigore il 14 gennaio 2017, fonte: https://www.legaldelivery.it/blog/la-legge-italiana-sul-cbd/).  

Oggi credo anche che il carcere mi abbia dato tanto, anche se all'inizio non la pensavo così e anzi mi scontravo con Carlo per questo. Io venivo da una scuola di vita che insegnava che in carcere, per non essere un ‘infame’, dovevi avere determinati atteggiamenti, quindi per me era ‘doveroso’ continuare a comportarmi con dei principi che non portassero problemi né a me, né a Carlo, né a mio padre che, pur essendo innocente, era finito dentro a causa mia.

Non voglio però trovare giustificazioni retoriche del perché ho fatto questa vita, la vita che poi mi ha portato in carcere, l'ho fatta perché mi piaceva, punto, la mia forma di libertà era trasgredire tutto ciò che era trasgredibile. Certo uno psicologo direbbe che ci sono stati condizionamenti, il quartiere, la vita di periferia, ma non voglio trovare scuse. A17 anni sono andato via da casa per andare a vivere a Londra. Ero già nel mondo della droga ma lì sono entrato in un giro più grande, internazionale, dove sembrava tutto facile, organizzavo viaggi per la droga che partivano dal Sudamerica, dal Marocco. E quando vivi così non sei mai tranquillo, non hai tempo per coltivare le cose che ti piacciono ma io sono un dj, ho organizzato festival ed eventi in giro per il mondo, questa era la mia parte artistica e ho sempre cercato di tenermela stretta, anche se la vita illegale ti leva tutto e ti sfugge di mano, è quello che io definisco il ‘mal di malavita’ e Carlito's way in questo senso è un capolavoro.

Ma tu invece sei uno di quei detenuti ‘che ce l’ha fatta’, uno di quelli che in carcere è riuscito ad emanciparsi, hai scoperto la letteratura, hai fatto attività teatrale e grazie a questo tuo lavoro hai fatto anche incontri importanti con Susanna Marietti, Stefano Anastasia e Giorgio Poidomani dell’Associazione Antigone. E sei riuscito anche a scrivere e a pubblicare un libro.

É vero, grazie ad Antigone sono riuscito a fare molte cose, sono stato aiutato e per questo mi sento un privilegiato. Per quanto riguarda il mio libro… posso solo dire che 'il crimine paga' come diceva Bukowsky! Santa Suerte, Una Vita Underground è uscito nel 2021 e raccontare la mia vita è stato importante per far capire agli altri un mondo che spesso viene raccontato male, in maniera distorta: trasgredire, per la società, è un male, punto.  Io penso invece che la maggior parte di quello che poi ho studiato, letto, derivi proprio, dalla mia voglia di trasgredire, di cercare sensazioni forti. Nella ricerca della droga penso di aver trovato in parte me stesso anche se detto così suona veramente male, lo so.  Io avevo deciso che a 30 anni non avrei più venduto droga, avrei staccato la spina e sarei andato 'in pensione', solo che a 29 anni mi arrestano e arrestano anche mio padre e mia madre, che erano innocenti. Nella mia superficialità, nella mia ricerca di libertà, ho devastato la libertà di tutti quelli che avevo intorno. Oggi penso che   la libertà sia un bene comune da condividere, invece allora per me la libertà era un vezzo egoista di un ragazzo drogato, esaltato da quel tipo di vita e dalle persone che avevo intorno. Vivevo in un surrogato di mondo, fatto di feste, discoteche, pagavo la gente per stare con me, amici che non erano amici. Era un mondo di finzione, nato quando avevo 17 anni e finito quando ne avevo 29.  

A un certo momento però c’è stata una svolta, quando hai iniziato a capire che esistevano altri valori?

Dentro di me ho sempre avuto quella cosa che mi diceva - basta Mauro, puoi fare altro – e ci sono sempre stati quelli che nel mio libro chiamo 'angeli metropolitani' che mi spronavano a cambiare ma è solo quando mi hanno arrestato e ho distrutto tutto, è stato allora che ho capito che avevo anche una responsabilità morale, verso me stesso e verso la mia famiglia, e che se volevo continuare a vivere dovevo ricostruire. Quindi il mio cambiamento ha coinciso con il carcere ma non è stato ‘grazie’ al carcere. In Italia sono poche le realtà carcerarie in cui le cose funzionano, purtroppo nella maggior parte dei casi devi pensare prima di tutto a salvaguardare la pelle, il che significa che a volte devi anche rinunciare a reinserirti perché per molti questo significa ‘stare con le guardie’ e quindi essere 'un infame'. Ma per fortuna, almeno all’inizio, non era così per il laboratorio che abbiamo creato io e Carlo dentro a Rebibbia.  È stato incredibile e mi ha fatto capire che nella vita si possono cambiare le cose in maniera diversa.

Non rimpiango il mio passato perché sono l'uomo di oggi grazie a quello che sono stato prima però quella non era la ricerca giusta.   Quello che rimpiango è la cultura, io ho studiato solo fino alla terza media. Certo adesso potrei prendere un diploma, in carcere è una cosa che quasi ti impongono di fare ma il mio essere anarchico mi ha fatto scegliere, alla mia età, di studiare solo le cose che mi piacevano.  Magari la figura del professore fosse come quella di Michele Placido in Mary per sempre, ma non è così!

La cosa più bella è stato capire che quello di cui noi detenuti avevamo realmente bisogno era di credere in qualcosa ed è quello che abbiamo fatto con il laboratorio.  Nessuno ha mai pensato, uscendo da lì, di darsi al cinema o al teatro ma in quel momento è stata una cosa utile perché ci ha fatto stare alle regole, ci ha aiutato e ci ha tirato fuori dal carcere e a me ha dato la forza di cambiare. Così come l’amore. In carcere ho conosciuto una ragazza, una volontaria e anche se eravamo diversissimi abbiamo iniziato a scriverci, ci siamo raccontati in migliaia di lettere e bigliettini, un amore platonico, come nell’800.

E adesso, quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Con i ragazzi di Tor Bella Monaca stiamo facendo un progetto sulla lavorazione della canapa, le sue trasformazioni, l'estrazione e se tutto va bene partiamo con la cooperativa per la produzione degli oli essenziali, la cosmeticaStiamo cercando anche di creare degli stabilimenti per lo smaltimento dello scarto della canapa con il quale fare piatti e bicchieri per sostituire la plastica. È   un progetto molto grande che speriamo di riuscire a concretizzare e che porterebbe lavoro a tanti ragazzi del quartiere.  

E poi sempre a Tor Bella Monaca abbiamo anche un’associazione culturale, con la quale abbiamo realizzato un murale con una vernice speciale in grado di assorbire lo smog. (E vale la pena fare una passeggiata per Tor Bella Monaca, la Garbatella e Tor Marancia, dove tra i casermoni si affacciano dei meravigliosi graffiti e per una volta la street art è veramente degna di questo nome, n.d.R.). Abbiamo presentato anche un progetto per rifare, a nostre spese, anche delle stazioni della metropolitana ma purtroppo non è andato avanti.  Insomma stiamo cercando di offrire nuove possibilità ma ovviamente bisogna anche volerle e i ragazzi che vengono da noi in associazione non sono ben visti, anche perché facciamo molte campagne contro la droga.

Delusioni, rimpianti… sogni in tasca?

La mia delusione più grande è stata aver abbandonato il lavoro con i detenuti e gli ex detenuti, anche se io e Carlo ci abbiamo provato in tutti i modi. Per quanti riguarda me, oggi, dopo nove anni di carcere, mi sento appagato, faccio l'imprenditore e lo faccio con dedizione, vorrei solo un po’ più di tempo per la mia ‘parte artistica’, quello che sento di essere veramente.  Con Carlo abbiamo partecipato a Sanremo Rock, è stato incredibile, ora sono qui a parlare con voi, e più avanti potrei anche riuscire a presentare il mio libro, magari chissà, proprio alla Feltrinelli. Quello che desidero oggi è solo un po’ più di libertà e di tempo per viaggiare, mi viene da piangere solo a pensarlo. Ecco prenderei l'aereo e andrei da qualsiasi parte, a piedi, solo con uno zaino, ecco, questo è il mio sogno.

Ciao Carlo, per cominciare, come ti racconteresti oggi a chi non ti conoscesse?

Direi che sono musicista, uno che sta provando in tutti i modi a far diventare quello della musica un lavoro. È difficile ma ci provo. Con Mauro l’anno scorso siamo arrivati addirittura alle semifinali di Sanremo Rock, da lì sono passati artisti famosi come Piero Pelù, Carmen Consoli, Tiziano Ferro.   Non ce lo aspettavamo! Poi ho anche altri progetti, sempre con la musica, incrocio le dita!

Quando hai iniziato a fare musica?

È una domanda a cui non saprei rispondere, suono da sempre. Ho cominciato da solo, quando ero piccolissimo, con una vecchia chitarra di mio padre, nessuno capiva come avessi fatto, mi consideravano una specie di bambino prodigio. Poi ho cominciato a suonare con tutto quello che trovavo, pentole, coperchi… la musica era la mia passione. A 11 anni ho fondato il mio primo gruppo, avevamo una batteria tutta rotta ma ho imparato a suonare anche con quella, sempre da solo. Insomma, è venuto tutto talmente naturale che non saprei dire quando è cominciato.

Poi è venuto il carcere, come hai continuato a coltivare questa passione negli anni della detenzione?

In realtà la detenzione è stato il momento in cui ho ricominciato.   Verso i diciotto anni me ne ero andato dall'Italia, ero andato in Spagna, a Ibiza, e lì per una decina di anni, fino al momento dell'arresto, avevo smesso completamente di suonare. Ero giovane, ero troppo preso dalla vita che facevo che poi è quella che mi ha portato a diventare un detenuto e non c’era spazio per la musica.  Ma quando sono entrato in carcere, di fronte alla mia cella ho trovato una sala musica, piccola e tutta scassata ma in quel momento ho capito, era un segno.  Così a Rebibbia ho ricominciato a suonare.

Il rapporto prigione e musica, con tutto il suo potenziale di evasione, ha dei ‘precedenti illustri’, a partire da Johnny Cash e la sua Folsom Prison… e su questa scia tu e Mauro avete fondato un duo, i ‘De Core’ con il quale avete partecipato a Sanremo Rock, come è nata questa esperienza?

È cominciato dalla sala musica che come vi dicevo stava proprio di fronte alla mia cella a Rebibbia. È stato un caso, una coincidenza. Era chiusa da tantissimo tempo ma dopo mesi e mesi di richieste, insistendo moltissimo, sono riuscito a farla riaprire.  All’inizio ho cominciato cercando persone che sapessero già suonare ma in carcere non è così facile e ovviamente non potevo contattare persone all’esterno, così ho iniziato a insegnare, in maniera molto rudimentale. Il mio scopo era mettere in piedi un concerto, facevamo cover e cercavo di mettere le persone in grado di suonarle nel più breve tempo possibile.  Era ovviamente una scorciatoia.  Suonavamo Folsom Prison e tutte quelle canzoni che rappresentavano il nostro stile di vita, quello che ci stava succedendo e quando ho visto che le canzoni funzionavano è diventata la mia attività principale

Anche il nostro duo, i ‘De Core’, detto alla romana, è nato da una coincidenza.  Mauro non aveva mai suonato, anzi era uno di quelli che si lamentava, brontolava, ci chiedeva di suonare più piano o di non farlo la domenica. Io sapevo però che lui scriveva poesie e aveva iniziato a scrivere anche le prime pagine del suo libro così gli ho chiesto di provare a riportare in musica queste cose, farne delle canzoni, magari provando a rapppare che non è tanto difficile, basta un po' di metrica, e così è cominciata. Volevo eliminare le cover e fare qualcosa di nostro e nel 2015 abbiamo pensato di fare un primo concerto sul tema della violenza sulle donne, da qui è nato 'Rebibbia, ma le donne'.  Mauro si è appassionato tantissimo e da allora non ha più smesso. E adesso che siamo usciti, continuiamo.

Nella tua esperienza quanto ha inciso il fatto di insegnare, di assumerti una ‘responsabilità pedagogica’?  Ti ha aiutato a capire che il tuo stava diventando un percorso di riabilitazione e non semplicemente di punizione?

In realtà non me ne sono mai reso conto, quello che facevo mi veniva naturale, l'ho presa come un colpo di fortuna, un segno del destino, ma so che è stata la mia salvezza. La mia attività di insegnamento mi dava la possibilità di uscire dal reparto e stare in mezzo alle persone. Praticamente ho passato la mia detenzione in una sala prove. È stata questa la mia 'riabilitazione', non il carcere che non serve certo a riabilitare, siamo noi che possiamo scegliere di farlo, a prescindere dal fatto che l'istituto funzioni o meno. E sì, la responsabilità di portare avanti questa cosa all’interno del carcere per me era molto forte, dovevo stare attento a tutto, anche a come si comportavano gli altri.

Poi, sempre con Mauro, è venuta la scrittura e il vostro libro "Chi come noi”, come è andata?

Il libro, è nato da uno spettacolo teatrale. Io e Mauro facevamo musica ma la sala era limitata a sei, massimo sette persone e se volevamo coinvolgere più compagni possibile, ci serviva qualcosa in più, così abbiamo pensato al teatro, con la presunzione forse, di poter creare qualcosa da zero.  In carcere leggevamo moltissimo e questo grazie a Claudio Felici, un signore molto colto, che si trovava dentro per reati politici. Era molto diverso da noi e dagli altri ma siamo diventati amici e grazie a lui ci siamo avvicinati a tutto il filone della letteratura angloamericana, soprattutto alla Beat Generation sulla quale abbiamo incentrato "Chi come noi" il nostro primo spettacolo. L'abbiamo chiamato così proprio perché volevamo parlare di personaggi famosi, soprattutto della letteratura, che fossero passati per le ‘patrie galere’.  Poi è diventato anche il nome del gruppo di lavoro e della nostra associazione culturale e alla fine anche un libro.  Abbiamo cominciato senza nessun tipo di esperienza, ‘scopiazzando’ qua e là, nelle varie scene venivano interpretati gli autori della Beat Generation, io facevo Keruac, Mauro, Allen Ginsberg e prendevamo i dialoghi direttamente dalle loro opere,   aggiungendo però anche del nostro.  Quindi la scrittura è partita così, con il teatro, ci è piaciuto tantissimo e da allora non abbiamo più smesso. Dopo è venuto Gente de barrio" (in spagnolo, n.d.R.), uno spettacolo itinerante, con cinque scene dislocate in posti diversi, dove il pubblico poteva spostarsi e camminando poteva vedere le scene prendere vita. Con la scusa che ci servivano molte comparse siamo riusciti a portare quasi novanta detenuti all' ‘Area Verde’ (l’Area Verde è uno spazio all’aperto dove si fanno i colloqui con le famiglie, altrimenti non accessibile. n.d.R.). Per fare le prove a volte stavamo all'aria aperta fino a sera. In carcere normalmente le celle vengono chiuse entro le 18 e per noi vedere il cielo di notte, senza sbarre è stata un’esperienza indimenticabile.

“Gente de barrio" è stato uno spettacolo importante, il culmine di tutto di tutto il nostro lavoro, purtroppo però è stato anche l’ultimo.

E poi, cosa è successo?

Ci sono state delle evasioni e il comandante e il direttore sono stati mandati via. Quando sono arrivati i nuovi, questi hanno cominciato a metterci i bastoni tra le ruote. Per loro il nostro laboratorio, il teatro, la musica, semplicemente non esistevano  e così hanno chiuso tutto, anche se questo è contro la Costituzione. La Costituzione dice che dobbiamo essere riabilitati e non semplicemente rinchiusi, se il carcere non ha i mezzi per farlo, per me ha fallito e dovrebbe chiudere.

E adesso che siete fuori c’è ancora una collaborazione con il carcere, continuate a portare avanti queste attività?

Purtroppo no. Quando sono uscito io, ormai più di tre anni fa, Mauro era stato trasferito nel frattempo al carcere di Chieti. Grazie all’articolo 17 e a un direttore molto illuminato, all’inizio avevo avuto il permesso di rientrare in carcere come volontario, anche se tutti me lo avevano sconsigliato, in primis quelli di Antigone (vd. box). Ma io volevo assolutamente continuare questa attività perché sapevo che come aveva salvato me poteva salvare altri. Poi è arrivato il covid e hanno bloccato tutto, addirittura le visite dei familiari e da qui infatti le rivolte nelle carceri, da Santa Maria Capua Vetere in poi. Quando poi Mauro è uscito per problemi di salute, abbiamo cominciato a organizzare qualcosa per ‘il fuori’. Volevamo fare degli spettacoli, a noi piaceva l'idea di un teatro diverso da quello classico e così è nato "Loss", perdita, in inglese.  Era una sceneggiatura molto bella, senza dialoghi, gli attori dovevano essere circensi, acrobati, sportivi, in grado di far capire tutto quello che volevamo a livello visivo. Molto difficile da scrivere, una bella sfida.  Abbiamo cercato dei finanziamenti, di partecipare anche a dei bandi ma non è stato possibile (la maggior parte dei bandi prevede l’assenza di reati ostativi n.d.R.). E a quel punto Mauro era stanco di insistere, io invece avrei continuato. Poi il covid è stato il colpo finale, la nostra attività si è interrotta così, peccato, ma ci abbiamo provato, in tutti i modi.

Tu sei libero dal primo giugno del 2018, che sensazioni hai provato quando sei uscito?

Una sensazione incredibile anche se, a dire la verità, tutte queste sensazioni stanno affiorando solo adesso, lì per lì non ho capito proprio niente.  Sono uscito e mi sono trovato su Via Tiburtina.  Allora ho chiamato subito Diana, la ragazza di cui era innamorato, una volontaria che a un certo punto era diventata la mia fidanzata.  Adesso sto scrivendo un libro, scrivo tantissimo, mi sveglio e scrivo tre o quattro pagine, a caso, senza pensare a niente, alla calligrafia, alla grammatica, virgole, punteggiatura. Non ho mai voluto scrivere di me stesso ma secondo me il laboratorio che abbiamo creato a Rebibbia deve essere raccontato, anche senza di me, senza il mio ‘personaggio’, perché quello che abbiamo fatto è stato veramente importante, per noi e per gli altri.

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