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Una raffinata violenza psicologica. La penna di Giulia Ciarapica per «Azione Letteraria»

 

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla

“Ma quanti cazzo di amici c’hai?”. Me lo disse prima di battere il pugno sul materasso, e no, non era una domanda. Di quel momento ricordo le lenzuola color crema, il suo petto nudo e l’orologio. Lo guardai e pensai: sono soltanto le ventitré.

Non userò nomi fittizi per raccontare questa storia né tenterò di trasformare me stessa nella supereroina che non sono stata. Non c’è niente di bello da ricordare se non la fine: me ne sono andata. Vorrei poter dire di aver imparato dai miei errori, e in effetti è così, ma si può dire di aver davvero imparato qualcosa quando tutto ciò che ti ritrovi in mano è un pugno di rabbia, tanta diffidenza e una disistima generale nei confronti dell’altro sesso? Probabilmente no.

Non è arrivato a picchiarmi, non gliene ho dato il tempo, ed è forse per questo che quelle poche volte che mi è capitato di raccontare questa storia – una raffinata violenza psicologica – mi sono sentita rispondere: “Potevi andartene prima, chi te lo ha fatto fare di rimanere lì”. Me lo ha fatto fare l’amore, purtroppo. Me lo ha fatto fare, forse, l’età - 24 anni. Me lo hanno fatto fare l’ammirazione, la stima, il fascino che subivo. Me lo ha fatto fare che lui aveva venticinque anni più di me e io riuscivo solo a sentirmi grata di avere accanto un maestro, come amava definirsi.

Nel tempo, ho smesso anche solo di accennare alla faccenda perché continuavo a sentirmi stupida, una povera scema che si sarebbe potuta risparmiare tanto dolore, a detta di chiunque. Oggi ho capito che non è così, ma come lo spieghi a chi non ha subito questo tipo di violenza che da un certo punto in avanti, in una relazione del genere, ti trasformi in un mattone, immobile e muta. Come se vivessi una paralisi del sonno: il cervello è sveglio ma il tuo corpo non riceve gli impulsi, quindi rimani fermo, non sai come muoverti, più tenti di aprire gli occhi più ti sembra che qualcuno salga sul tuo petto e provi a schiacciarti.

Quando ti svegli, hai la sensazione che siano passati svariati minuti, intere mezz’ore trascorse a combattere contro un’ombra che opponeva resistenza. In realtà, tutto si è consumato in una misera manciata di secondi.

Quando G. mi ha scritto per la prima volta io sapevo chi era, in qualche misura lo conoscevo. L’avevo già visto, ascoltato, perfino deriso tra me e me, perché mi sembrava uno di quei signori impacciati e innocui di cui a ventiquattro anni ridevo e basta. Col tempo mi sono resa conto che a trarmi in inganno fu proprio quel modo di fare sbadato, apparentemente distratto, che me lo rendeva buffo e divertente anche quando cercava di darsi un contegno, di fare il serio.

G. era discreto, elegante in una maniera strana ma convincente, signorile. Soprattutto era colto, molto colto, e con l’andare dei mesi mi ero convinta che se avessi davvero potuto imparare qualcosa da qualcuno – scrittura compresa – questo qualcuno era lui. Subivo il suo fascino e lui non faceva nulla per allontanarmi, anzi. Mi chiedeva di inviargli le cose che scrivevo, mi suggeriva le letture giuste, mi suggeriva i programmi da seguire. Mi interrogava, anche, e prima di chiedermi qualcosa ci girava intorno, poi sfoderava quella domanda – E quindi cosa ne pensi di? Perciò che idea ti sei fatta di? – che gli avrebbe rivelato non solo se avessi davvero guardato il talk, ma soprattutto se mi fossi fatta l’idea giusta – la sua. Ogni questione aveva soltanto un punto d’osservazione reale: quello di G.

Capitava però che non fossimo d’accordo su tutto, specie all’inizio, quando, ingenuamente, reputavo normale aprire un dibattito su qualcosa che entrambi avevamo letto. Le possibilità erano due: o smetteva di rispondermi, o attaccava con i monosillabi dopo avermi fatto capire che non avevo solo sbagliato, ma che ero proprio stupida. Limitata, per l’esattezza. Non meritavo il suo tempo, le sue risposte, i suoi insegnamenti. Niente.

Ricordo ancora quando gli inviai un pezzo su Pavese, ero alle prime armi e cercavo nei professionisti attorno a me conferme o smentite sulla qualità del mio lavoro. Mi aveva detto: Quando finisci, inviamelo, te lo correggo. Feci come desiderava, mi fidavo ciecamente.

Non mi chiamò, non disse mezza parola. Verso sera, mi inviò una mail con scritto: RIFARE. Gli chiesi subito dove avevo sbagliato, se poteva darmi indicazioni utili, spiegarmi l’errore, insomma – non è questo che fanno i maestri? – ma lui scrisse soltanto, di nuovo, tutto in maiuscolo: DA RIFARE.

Con lui dovevo continuamente ricominciare da capo, resettare, riprogrammare qualunque cosa avessi iniziato o fossi in procinto di fare. Anche le idee andavano riviste, anzi, soprattutto quelle. Secondo G., non mi limitavo a sbagliare. Avevo addirittura la presunzione di pensare per conto mio, e non poteva essere un caso che ogni volta che osavo fare qualcosa senza la sua supervisione, quel qualcosa andasse male. “Lo vedi? È perché non mi ascolti. Sei testarda”.

Testarda lo ero, lo sono sempre stata, ma non ricordo un altro momento della mia vita in cui fui più accondiscendente di così. Temevo il suo giudizio più di ogni altra cosa, temevo di non piacergli più, di farlo allontanare.

Dovevo essere io a cercarlo, e quando non lo facevo – per motivi di lavoro, trasferte, presentazioni, tutte cose di cui veniva avvertito in precedenza – mi scriveva con una scusa qualunque e poi aspettava. Se tardavo anche solo di quaranta minuti, un’ora al massimo, la sua risposta al mio ritardo era il silenzio, spesso per giorni interi. Quella punizione non mi feriva soltanto, ma mi dava la misura di quanto fossi indegna.

Insieme a G., mi ero trasformata in un essere poco pensante e molto prudente, attenta a cose che prima davo per scontate – come avere un’opinione, comunicargliela, studiare il momento adatto per non dire cose che avrebbero potuto infastidirlo, e in generale analizzare i suoi umori, gli stati d’animo, le banalità da evitare (odiava che qualcuno gli chiedesse se era raffreddato, ad esempio: “Non lo capisci da sola? Non si sente?”).

Dunque, lo strumento che più utilizzavo a contatto con G. era il metro. Ci misuravo la quantità di amore che davo e che ricevevo, senza ovviamente rendermi conto che l’unica a dare qualcosa ero io. Ci misuravo la lunghezza delle chat, delle telefonate, delle chiacchiere. Ci misuravo i silenzi, suoi e mai miei. Soprattutto, ci misuravo il mio valore. Valevo tanto quanto lui ritenesse che fosse giusto.

Cosa sbagliavo? Me lo sono chiesta per tanto tempo, in quel periodo – quasi tre anni – e non riuscivo a vedere la risposta, cioè “niente”.

Era sbagliata la mia apertura verso gli altri, secondo lui.

Era sbagliato il fatto che avessi molti amici, secondo lui.

Era sbagliato che pensassi senza il suo consenso, che formulassi teorie lontane dalle sue, secondo lui.

Era sbagliato che non seguissi alla lettera i consigli che mi dava, secondo lui.

Era sbagliato tutto ciò che mi portava a essere me.

La sua mania di controllo valicava i confini dell’accettabilità, e io non me ne rendevo conto. Il mio grado di consapevolezza del pericolo a cui mi avvicinavo ogni giorno, non era paragonabile alla paura che avevo di perderlo, che invece offuscava tutto il resto.

Lui non voleva insegnare qualcosa, voleva addomesticare.

Non voleva mostrarvi una via, una possibilità. Lui voleva essere l’unica via.

Giustificavo qualunque atto, qualunque violenza psicologica, qualunque privazione in nome dell’amore: Mi ama, è che non riesce a dimostrarlo. Senza di lui mi sentivo sola, persa, e non perché lo fossi realmente, ma perché quando lui se ne andava si portava dietro tutto quello che mi toglieva: la libertà.

A un certo punto, però, mi sono resa conto che non dipendevo più dal suo amore ma da qualcosa di più sottile e grossolano al tempo stesso: dipendevo dal giudizio che aveva di me.

Quante volte mi è stato chiesto di cambiare? Quante volte mi è stato chiesto non solo di essere diversa, ma di non essere più qualcosa? Quanto è stato soddisfacente, per G. e non solo, vedermi cadere? E non gli piaceva soltanto vedermi fallire, no, gli piaceva soprattutto dirmi: La colpa è tua, che non mi hai ascoltato. Ora, a te, ci penso io.

Questa non è una storia d’amore, non è nemmeno una storia di disamore. Questa è una storia di potere, subito e ostentato. Un gioco di forze che non ha niente a che vedere con i sentimenti, buoni o cattivi che siano. Questa è semplicemente la storia di un uomo contro una donna, di un desiderio di possesso e distruzione prima di tutto mentale e poi emotivo.

Mentre stavamo insieme mi sentivo stupida. Dopo che ci siamo lasciati, per tanto tempo ho continuato a sentirmi stupida – per non essermi accorta prima di molte cose, per non aver riconosciuto subito i segnali, per avermi fatta trattare a quel modo lungamente. Poi, a un certo punto, quando dopo quasi un anno è tornato a farsi vivo, convinto che sarebbe bastato un “ti penso” per riannodare i fili del possesso, in me si è finalmente rotto qualcosa, e ho iniziato a pensare che l’unica persona stupida in quella stanza fosse lui.

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