La sera del 24 agosto 1943, nel sanatorio di Ashford, vicino Londra, a 34 anni (era nata nel 1909) Simone Weil muore dopo una degenza di quattro mesi per una tubercolosi che la distrugge fisicamente.
Scrive Simone Pétrement, una delle sue amiche di una vita e autrice di una sua biografia che ancora oggi rimane uno dei libri migliori scritti su di lei:
Fu sepolta il 30 agosto, nel New Cemetery di Ashford, nella sezione riservata ai cattolici. Sette persone assistettero al funerale: Mme Aron (arrivata da poco a Londra), Mme Closon, il professor Fehling, Mrs Francis, Mme Rosin, Maurice Schumann e una francese dei servizi di France combattante. Avevano chiesto a un prete di venire; si sbagliò o perse il treno, e non venne.
Weil fu un personaggio singolare non solo nelle idee, fuori dai conformismi lo fu anche nella vita, o meglio nella rigorosa tensione a far coincidere vita e pensiero, a confrontare e legare il pensiero e l'esperienza. Dice la sua biografia: 'Aveva il dono di irritare molti e a volte fino al furore, e... continua a irritare ancora'.
Una scena che è sostanzialmente caratterizzata di due tratti: l’affetto degli amici (pochi. non meno di una settimana prima Simone aveva litigato con Schumann, l’unica figura di cui Simone si fidasse del ristretto entourage intorno a Charles de Gaulle, cui rimproverava il boicottaggio alla sua proposta di andare in Francia e unirsi alla Resistenza francese) e l’imbarazzo.
Quell’imbarazzo dice molte cose della crisi della politica di allora, ma è capace di parlare a noi ancora oggi. Al centro di quel sentimento sta un tratto caratteriale proprio di Weil: l’intransigenza.
Quando muore, Simone sa che l’intransigenza, l’unico atteggiamento capace di stimolare impegno, è quella dimensione che nessuno vuole ascoltare. L’intransigenza, precisa, è l’unica condizione per dire la verità. Ma essere intransigenti non vuol dire essere estremisti, bensì essere radicali, vuol dire prendere la misura della diseguaglianza
Lo scrive ai genitori in quella che sa essere, con molta probabilità, la sua ultima lettera in cui fa l’elogio dei matti, le uniche figure capaci di dire la verità:
In questo mondo, solo coloro che si sentono umiliati all’estremo, molti più che dal chiedere l’elemosina, coloro che non hanno nessun peso sociale, ma che agi occhi di tutti hanno perso la base stessa della dignità umana, la ragione: solo costoro possono dire la verità. Tutti gli atri mentono.
Prima di lei solo Pirandello con il Berretto a sonagli aveva provato a dirlo.
Pochi mesi prima, facendo un bilancio di ciò che la politica doveva far suo se voleva trovare una strada per uscire dal vuoto e dall’orrore del proprio tempo, aveva scritto in quello che rimane il suo ultimo testo compiuto (composto nell’inverno 1943, dunque pochi mesi prima della morte) che l’unico avvenire possibile stava nella ricostruzione di un patto per il futuro in cui al centro doveva stare l’obbedienza, che ora erige a virtù cardinale.
Quell’esito, per certi aspetti, non era inatteso, o non era un tradimento. La sua è una riflessione che nel giro di un decennio, tra il 1933 e la morte, traccia una storia caratterizzata ogni volta di una posizione in controtendenza o comunque distinta rispetto al mondo intellettuale (quello dell’École Normale, da cui esce nel 1932 con il massimo dei punti) e da quello politico (tra anarchismo, antistalinismo di sinistra, movimento sindacale) con cui ha pratica di confronto.
Di quella storia proviamo a tracciare alcuni momenti essenziali. Tra i molti ne proponiamo due.
Il primo riguarda la Germania. Nell’estate 1932 Simone va in Germania: è l’ultima estate di libertà dalla dittatura. Nelle lettere che invia da Berlino la percezione è quella del male che arriva, di una classe operaia totalmente disinteressata alla crisi della democrazia, di una insorgenza della violenza di cui intravede con immediatezza la radicalità, la forza, la macchina politica che la sostiene. Né Raymond Aron, né Jean-Paul Sartre che saranno in Germania un anno dopo di lei, nell’estate 1933 – il partito nazista è al potere dal 30 gennaio –, dimostrano sensibilità verso ciò che sta avvenendo che vedono, ma «non registrano». Sartre impiega il suo tempo a studiare Husserl, a infatuarsi di Heidegger, e lavorare al suo romanzo, La nausea. Non diversamente Raymond Aron.
La notte del Capodanno 1932-1933, Aron la passa con Sartre e De Beauvoir al Café bec-de-Ganz in rue de Montparnasse. È appena tornato a Parigi per le feste di fine anno, perché in quel periodo vive a Berlino dove usufruisce di una borsa di studio. La Germania nelle loro conversazioni è solo la scoperta della fenomenologia di Husserl. Hitler non c’è, la violenza nelle strade non c’è, le SA non ci sono, tanto che, alla fine della serata, Sartre freme dalla voglia di andare a Berlino.
Ci andrà sei mesi dopo, nel pieno dell’ascesa nazista, poche settimane dopo i roghi dei libri (a Berlino avviene il 10 maggio 1933), mentre l’opposizione è messa in campi di concentramento, costretta a emigrare, o comunque ridotta al silenzio. Tutta la concentrazione del filosofo, però, sarà rivolta alla sola cura di sé stesso
Simone Weil non aveva aspettato di vedere Hitler al potere. Nel novembre dell’anno prima aveva colto l’essenza della situazione e aveva profetizzato la possibilità dell’arrivo di Hitler nelle divisioni, nelle sinistre riformiste, socialiste, comuniste rivoluzionarie.
Non è l’unica cosa che intuisce in tempo reale. Nell’estate 1933 in totale solitudine (solo gli anarchici e i suoi amici sindacalisti rivoluzionari condividono le sue parole) scrive un lungo saggio sul periodico La Révolution prolétarienne sulla situazione tedesca e le lezioni che devono essere tratte da quella «rotta totale ed epocale» della sinistra (in versione italiana il testo è compreso nl volume dal titolo Incontri libertari).
Merita attenzione un passaggio:
Descartes diceva che un orologio che non funziona non è una eccezione alle leggi dell’orologio, ma un meccanismo diverso che obbedisce alle leggi proprie: allo stesso modo bisogna considerare il regime staliniano, non come uno Stato operaio che non funziona, ma come un meccanismo sociale diverso, definito dagli ingranaggi che lo compongono, e funzionante in conformità alla natura di questi ingranaggi.
Fuori da ogni religione, ma a suo modo profondamente religiosa, fuori da ogni partito, ma sempre socialmente e politicamente impegnata, Simone Weil è un personaggio unico, difficile da far rientrare nelle grandi categorie che hanno segnato il Novecento. Ed è proprio questa sua «estraneità» che la rende oggi molto più in sintonia con il pensiero e la sensibilità contemporanei.
Con ciò Weil apre il lungo capitolo, ancora composto da una minoranza, di chi, a sinistra, si pone la domanda se l’Unione Sovietica sia un esperimento sociale, politico e culturale che sta a sinistra o non appartenga già, invece, alla famiglia dei totalitarismi. Anche questo un tema su cui a lungo si troverà in solitudine.
Il secondo momento riguarda la guerra civile spagnola.
Simone Weil decide di partire volontaria. Quell’esperienza la segna da molti punti di vista, in relazione alla scelta tra guerra e non guerra, al ruolo dell’Urss a fianco della parte dei miliziani di matrice comunista, alle scelte da compiere in un conflitto armato. Per esempio se uccidere o no i nemici catturati, come comportarsi nei confronti delle figure religiose e degli esponenti del clero.
L’esperienza di Simone Weil in Spagna dura sei settimane. Molte delle domande e delle inquietudini che quella guerra suscita, Weil le condenserà in una lettera a Georges Bernanos, scrittore di letteratura notoriamente collocato a destra, che nel 1938 con il suo romanzo I grandi cimiteri sotto la luna pone il problema non della violenza che la guerra genera, ma della perdita di umanità che la guerra ormai contrassegna, riferendosi alle violenze gratuite di quelli che considera «la sua parte», ovvero i miliziani di Franco, quelli, in breve, di destra. In quel testo traspare un forte senso di smarrimento, condizione peraltro non dissimile da quella sperimentata da Simone Weil mentre tornava a casa dopo la sua esperienza spagnola.
Da quella guerra, da cui torna a casa prima che si consumino le tragiche giornate del maggio 1937 quando i militanti della sinistra radicale sono perseguitati e uccisi da formazioni comuniste e da cui Orwell si salverà per miracolo (una sua testimonianza sarà il suo Omaggio alla Catalogna), Weil ricava il senso di uno smarrimento: a sinistra si conferma la distanza tra principi dichiarati e pratiche politiche, a destra semplicemente si consuma l’elogio della violenza sul corpo del nemico ucciso.
Nella lettera a Georges Bernanos del 1938, Weil capisce che forse si sta aprendo un fronte che rimescola tutte le carte: qui si oppone a ogni manicheismo menzognero e dichiara tutto il suo orrore per i crimini dei suoi, cioè dei repubblicani antifranchisti, lo stesso orrore che Bernanos aveva per i crimini dei franchisti.
In quella lettera scrive tra l’altro, in riferimento alla sua esperienza:
Per conto mio ho avuto la sensazione che, quando le autorità temporali o spirituali hanno escluso una categoria di esseri umani dal numero di coloro la cui vita ha un valore, non c’è per l’uomo nulla di più naturale che uccidere. Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo né biasimo, si uccide; o perlomeno si circonda di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono.
[…]
Un’atmosfera simile cancella immediatamente lo scipo stesso della lotta. Infatti non si può formulare tale scopo se non riconducendolo al bene pubblico, al bene degli uomini – ed ecco che gli uomini non hanno nessun valore.
[…]
Lei è monarchico e discepolo di Drumont – Che m’importa? Lei mi è incomparabilmente più vicino dei miei compagni delle milizie di Aragona – quei compagni che tuttavia ho amato.
Si apre un nuovo fronte in cui essere intellettuali liberi si dimostra un territorio molto impervio. Indipendentemente se collocati a destra o a sinistra, la sfida diventa pensare una nuova piattaforma per rifondare, più che la convivenza, un piano per dare al futuro una possibilità. Quel fronte non avrà a lungo – e ancora oggi non ha – spazi e di crescita, ma è sintomo di un percorso complicato che riguarda il ruolo degli intellettuali non come fiancheggiatori, ma come testimoni di un’autentica esperienza di inquietudine. Un profilo che ci riguarda ancora oggi, questo nostro oggi.
Non si tratta di essere anticonformisti o di assumere una postura provocatoria – facendo a gara a chi «la spara più grossa» –; l’anticonformismo non è un progetto politico, al più è una posa estetica. Nella società dello spettacolo è sempre di più un modo per farsi notare e per dotarsi di un’audience.
Simone Weil non era né l’anticipazione della nostra società dello spettacolo né l’archetipo dell’anticonformista d’assalto. La sua era una postura in cui la domanda chiedeva risposte non elusive e andava diretta al punto. La sua non era una richiesta di consenso, ma una proposta per fare. Spesso quella domanda rimaneva inevasa o senza risposte. Anche dopo quel 24 agosto 1943 quando Simone Weil «tolse il disturbo».
Anarchica e conservatrice, rivoluzionaria e controrivoluzionaria, atea e mistica, Simone Weil è anche una filosofa. Questo libro ha l’intento di leggere le sue pagine alla luce del concetto di lavoro, mediante il quale possono essere comprese le contraddizioni delle sue convinzioni. Il lavoro emerge come maledizione, ma anche come unico rimedio possibile a quella malattia della modernità cui Weil dà il nome di «sradicamento»: malattia inestirpabile che tormenta, oggi come allora, il nostro occidente.
Di
| Adelphi, 2014Di
| Adelphi, 1983Di
| Adelphi, 2012Di
| Adelphi, 2018Di
| Adelphi, 2008Di
| Asterios, 2012Di
| SE, 2013Di
| Chiarelettere, 2016Di
| Adelphi, 1987Di
| Adelphi, 1990Di
| Adelphi, 1982Di
| Le Lettere, 2020Di
| Adelphi, 1985Di
| Adelphi, 1996Di
| Bompiani, 2002Ti potrebbero interessare
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