Il Bildungsroman è uno di quei modelli letterari che mantiene ai giorni nostri – pur nelle sue variazioni e (necessarie) storture – notevole presa sui lettori e, ancor di più, sugli autori stessi.
Descrivere svevianamente una vita, partendo dal limen della gioventù e possibilmente sbordando in un accrescimento non tanto materiale quanto psichico, tutto cucito di motivi interiori, ha in sé un’innegabile attrattiva.
In un celebre saggio (Il romanzo di formazione, Einaudi 1999), rivolto però al secolo che più ha ottemperato alle qualità simboliche del genere, vale a dire l’Ottocento, Franco Moretti agganciava alle tortuose peripezie dell’identità dell’eroe l’increspato flusso della storia, in ispecie lo sfaldamento delle società tradizionali per effetto della modernità (esemplare la vicenda di un Julien Sorel o di una Jane Eyre).
Ecco, Lukács sarebbe d’accordo, il Bildungsroman si situa sempre (o quasi) in momenti di cesura, di «grandi speranze» e «illusioni perdute». Nell’epoca digitale – se si prescinde dai tentativi più audacemente à la page (ad esempio, Il Vangelo secondo Larry di Janet Tashjian, 2001; ma con maggior spessore, Norvegian Wood di Haruki Murakami, 1987) – si assiste a un sintomatico rinvigorimento che volge verso due chiari centri d’interesse: la storia, appunto, (o meno prosaicamente la memoria) e il mito.
Anch’essi latori di uno iato, di un’interruzione epocale. In due modulazioni di stile del tutto diverse.
Con Vecchi ragazzi (Manni 2022, pp. 416) Elda Torres, giornalista e scrittrice di origine marchigiana che risiede a Firenze, intende raccontare attraverso la figura di Gioia (antifrasticamente nomen omen) e il difficile rapporto con il marito Max la generazione sessantottina in uno slargo cronologico che va dal fascismo al crollo delle Torri Gemelle.
Diviso in tre sezioni (Scuola d’amore, Gli anni bui della luce accecante, D’amore e di guerra), contornato di analessi e procedimenti retrospettivi, Vecchi ragazzi è narrato in prima persona proprio da Gioia (teniamo presente questo dato), che enuclea il resoconto della sua esistenza – il matrimonio, la maternità, la scrittura, il lavoro a Parigi, la madre Elena, le amiche Sara, Ludovica, Francesca, Mara e molto altro – alternando piani diegetici e registri formali differenti (c’è spazio per il giallo attraverso il poliziotto gaddiano Saltalaquaglia; linguisticamente si passa dal sermo cotidianus dei dialoghi a una prosa saggistica che cita filosofi e s’impreziosisce di getto).
Un degno spaccato di questo compìto mélange è la parte centrale del capitolo Cupio dissolvi, una confessione intimista che rasenta l’autofiction:
Quel settembre ancora riflettevo sul mio cupio dissolvi, sui perché mi ero messa un cappio alla gola e mandato in rovina quello che di bello avevo avuto dall’esistenza. Inebetita davanti al televisore guardavo un film già visto tre volte
Sicuramente tendenza al realismo, a quella tipologia di realismo post-postmodernista (dal 2001 in poi) che Walter Siti addita come reazione all’abbaglio di ciò che è reale, e quindi come qualcosa di «oscuro», «ambiguo» (si veda, a tal proposito, Il realismo è l’impossibile, nottetempo 2013).
Se l’ambiguo dell’autoconfessione è una lente con cui poter leggere il romanzo di Torres, con Tramontare (minimum fax 2021, pp. 150) di Andrea Gentile, scrittore e direttore editoriale del Saggiatore, ci muoviamo sul campo dell’obscurisme, a cui corrisponde la macrostruttura del mito.
Terzo volume di una “trilogia delle origini” ambientata a Masserie di Cristo (e cominciata con L’impero familiare delle tenebre future, il Saggiatore 2012, e I vivi e i morti, minimum fax 2018), composto da settantadue capitoli che nominano elementi referenziali (Freddo, Carne, Cenere, Vuoto, etc.), Tramontare è il nome della protagonista – di nuovo narrante in prima persona –, che troviamo bambina e anziana, avvolta in un’atmosfera fantasmatica, da southern gothic, o meglio da orrore letterario, secondo lo stigma di Orazio Labbate (Italo Svevo Edizioni 2022).
Come Vecchi ragazzi, il testo di Gentile si può solo impropriamente definire “di formazione” (sarebbe meglio “in formazione”): tuttavia, mentre per Torres, sbrogliato l’intreccio, riusciamo comunque a ricondurre i fatti dentro una fabula, in Tramontare l’idea del tempo è evidente nella dispersione del calore, nel suo immemoriale spegnersi.
Tout le reste est melodia, incantamento, sacertà, equilibrio di passato e futuro, insopprimibile tensione poematica della parola, incrociarsi di fiaba e cronaca. Tramontare è forse un boccalibro – come Tarantula di Bob Dylan – e adempie pienamente alle sue potenzialità espressive “risuonando” nella mente. Robert Walser soleva dire:
Io sono ormai solo un orecchio, un orecchio indicibilmente commosso
Ecco l’incipit del capitolo Carne:
«Io sono la morte. Così dicono. Non è vero: io sono solo una bambina. Tramontare è una bambina nera. Così dicono. Camminare è meraviglia, a Masserie di Cristo. Gioco a incrociare gli sguardi di tutti. In pochi secondi: studiare le loro dentature. Augurarmi che si mostrino a me. E allora modulare il passaggio, il mio passaggio, sulla base di ritmi che sento dentro. Aspettare un istante. Fermarsi. Poi ripartire».
Fascinazione della sintassi, sortilegio blanchotiano: certo è che avvertiamo anche qui l’acquisizione in corso di una consistenza spirituale, un rito di transito.
Di
| Feltrinelli, 2018Di
| Einaudi, 2014Di
| Mondadori, 2023Di
| E/O, 2011Di
| Guanda, 2019Ti potrebbero interessare
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