A distanza di tanti anni cosa resta di quei roboanti dibattiti? Cosa significa adesso un libro come "La terra del rimorso"? Resta un impianto metodologico che di populista non ha proprio niente
Claudio Piersanti ha colto un aspetto essenziale della Terra del rimorso di Ernesto De Martino, ristampato recentemente da Einaudi.
Lo stesso vale per Rocco Scotellaro a settanta anni dalla morte (15 dicembre 1953) e a cento dalla nascita (19 aprile 1923) come ci suggerisce Marco Gatto con il suo Rocco Scotellaro e la questione meridionale, buono strumento per far rinascere l’interesse verso la vicenda umana, intellettuale, culturale e politica di Rocco Scotellaro, a lungo coltivata dai suoi amici ma che si è persa nella memoria nazionale.
«Intellettuale di tipo nuovo» per Italo Calvino, Rocco Scotellaro «in modo forse più completo d'ogni altro s'era avvicinato all'ideale d'uomo che la gioventù della Resistenza conteneva potenzialmente in sé», perché «impegnato sul fronte più avanzato della lotta sociale e sul piano più qualificato della cultura letteraria nazionale.»
La proposta di Marco Gatto è ricostruire il profilo di Rocco Scotellaro non più come il cantore di una civiltà sull’orlo della dissoluzione, bensì - riprendendo la suggestione di Gramsci dai Quaderni del carcere - come «costruttore, organizzatore, mescolandosi attivamente nella vita pratica».
Marco Gatto definisce così l’opera umana e culturale di Scotellaro:
«È il tentativo politico di un giovane intellettuale di mediare tra la sua esperienza concreta di scrittore, militante e di amministratore e quella di una realtà non riducibile ai fin troppo semplificati parametri della sociologia rurale […].
Il tentativo insomma è quello di rendere conto della stratificazione materiale e culturale della società contadina con sfumature, zone grigie, pulsioni nascoste ed evidenziare la complessità di un mondo perennemente in movimento, per nulla immobile e per nulla lontano dai processi della storia, fatto non solo di miseria oggettiva, ma anche di sforzi individuali, che offrono contraddittorie e ambigue risposte, a cui l’intellettuale deve dare un senso»
Tornano utili le considerazioni di uno dei suoi maestri, Manlio Rossi Doria.
Nel 1974, a venti anni dalla morte di Scotellaro, Rossi Doria sottolinea come la figura e le vicende di Rocco Scotellaro gli apparissero, contemporaneamente, lontane e vicine.
Da una parte la descrizione delle campagne e delle condizioni del Mezzogiorno – un quadro umano che Carlo Levi, amico di Rocco Scotellaro, aveva messo al centro del suo Cristo si è fermato a Eboli – dall’altra le scelte radicali che i giovani del Mezzogiorno erano chiamati a compiere di fronte alle sfide del proprio tempo.
Ciò che Rossi Doria vede ripetersi (a metà anni ’70) per molti aspetti continua a essere vero anche oggi.
A dimostrazione Rossi Doria cita due testi diversi di Scotellaro: il primo scritto nel tempo della Costituente (tra 1946 e 1947), quando le speranze e la scommessa sul futuro aperte dalla Resistenza e poi dalla Liberazione inducono a pensare che «molte cose siano possibili»; il secondo ripreso da un passaggio dell’Uva puttanella – l’autobiografia a cui Scotellaro lavora tra 1950 e 1953, rimasta incompiuta e che poi Laterza pubblicherà in prima edizione nel 1955 con una introduzione «calda» di Carlo Levi.
Nel 1946 Scotellaro riprende le domande che Luigi La Vista, giovane ribelle napoletano che nel 1848 cade sulle barricate a Napoli, ha rivolto ai suoi compagni esattamente un secolo prima:
«Qual è il clima del nostro tempo? Non soltanto per fare una scelta di vita, ma per diventare socialmente maturi? E più generalmente quale mestiere faremo? Quali porte si sono aperte? Qual è la struttura della società in questa Italia scombinata, divisa, in cui alle differenze regionali di antica eredità si sono aggiunte le inimicizie e le lotte al coltello?»
Un secolo dopo quelle domande senza risposta tornano nella riflessione di Scotellaro:
I giovani sanno che questa è l’ora della creazione della democrazia e spetta a essi il maggior contributo perché la lotta per la democrazia coincide con il loro ingresso nella vita del lavoro, che è coscienza della propria storia
Cinque anni dopo ripensa alla sua vicenda di sindaco, interrotta dall’accusa di concussione, truffa e associazione a delinquere mossa dai suoi avversari politici che lo porta in carcere per 45 giorni (dall’8 febbraio al 25 marzo 1950) e da cui esce assolto con formula piena per non aver commesso il reato, vicenda ricostruita nel 2016 da Michele Porcari.
È anche l’occasione per un bilancio della politica e delle sue contraddizioni.
Scrive allora Scotellaro in una pagina di Uva puttanella ripensando alla sua esperienza umana di sindaco, ma soprattutto al rapporto tra società civile e politica:
«La mia libertà del sogno non era quella reale, che avevo vissuta: A ogni passo la gente mi fermava nella strada, da uno passavo a un altro: “Una cosa”, “Una preghiera”, “Un fatto importante”, “Il certificato”, “Il libretto di lavoro”, “il lavoro”, “l’elenco dei poveri”, “i medicinali”, la lampada alla latrina, la tassa bestiame, il bilancio preventivo, l’orario della corriera, mancano 4 banchi, un’altra lavagna, il custode al cimitero, «tizio ha parlato male di te, ha detto “basta eccetera”, dopo te lo dico, ha bruciato gli ossi dei morti», «facciamo le guardie consorziali», «dammi un posto qualunque», «solo a me non mi avete dato il sussidio, tutti lo prendono», «quando tutto si vuole tutto si fa. La domanda l’hai messa a dormire?» E le mie infinite risposte e mia madre che dalla finestra diceva loro: «Favorite» e rientrando a me «Neanche pace quando si mangia». E gli amici che commentavano: «meglio essere fesso e non sindaco».
E io non sapevo dare torto a nessuno».
Ciò non lo porta verso l’antipolitica.
Le dimissioni da sindaco l’8 maggio 1950 (carica in cui era stato reintegrato all’indomani della sua scarcerazione) lo convincono infatti a ritenere che un’azione politica è possibile, trovando strade diverse dalla politica di partito.
Non è l’unica questione per cui vale la pena riprendere in mano la scrittura e la riflessione civile di Rocco Scotellaro a cento anni dalla nascita e a circa settanta dalla morte. Rimaniamo ancora in questo tempo segnato dalla sconfitta e dalla necessità di trovare strade diverse dall’impegno diretto in politica.
Il primo passo che compie Scotellaro dopo il suo arresto e la sua scarcerazione - una vicenda che non è un unicum nella storia del Mezzogiorno dell’Italia repubblicana e che dal punto di vista giudiziario ha affinità non secondarie con la vicenda a noi più vicina di Domenico Lucano – è quello di difendere il mondo contadino e la sua cultura, anzi la sua «civiltà», osservando tutto con rispetto.
Lo scrive nell’Uva puttanella quando rievoca come aveva presentato Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi ai suoi compagni di cella:
«lo scrittore non è un mio amico. Non è un amico come non può esserlo l’avvocato, il medico, il testimone, il deputato, il prete. Quest’uomo è un fratellastro, mio, nostro, che abbiamo un giorno incontrato per avventura.
Ciò che ci lega a lui è una fiducia reciproca per un fatto accaduto a lui e a noi, è un amore della propria somiglianza».
Scotellaro non ha nostalgia di un mondo di cui percepisce la fine e la sua sostituzione con una condizione di sfruttamento, di alienazione, e di soggezione (oppure più radicalmente di schiavitù). Gli interessa, parallelamente alle riflessioni portate avanti da Camus nel suo L'uomo in rivolta, la fisionomia e il diritto alla rivolta anche contro quelle ideologie che promettono l’uguaglianza ma poi praticano la tirannia.
Per questo è sensibile al ridare voce ai «senzavoce», a trovare linguaggi, costruire luoghi di discussione - in quegli anni riviste, oggi diremo piattaforme - in cui scambiare esperienze e rompere le solitudini, come spiega in un suo intervento del 1952 dal titolo Le riviste di cultura e il nostro tempo.
È l’esperienza del carcere a fargli cambiare radicalmente prospettiva.
Inaugura così un’esperienza di cittadinanza militante che anticipa alcune delle sollecitazioni che alla fine degli anni ’50 saranno poi proposte da Hannah Arendt nel suo Vita activa.
Questo aspetto forse spiega la marginalizzazione di Scotellaro o il giudizio sulla sua opera come fascino nostalgico, un tratto evidenziato da Alberto Asor Rosa in Scrittori e popolo quando classifica la sua prosa come espressione dei «moduli classici dell’estetismo populistico-democratico». Ma forse è proprio per questo, riprendendo lo spunto di Rossi Doria, che ce lo fa sentire vicino, o meglio «prossimo».
Scotellaro, attraverso la sua scrittura, non solo giornalistica o letteraria ma di indagine sul mondo contadino - il riferimento è a Contadini del sud che Laterza pubblica postumo nel 1954 - rappresenta un punto essenziale di quella riflessione pubblica che ripropone il Sud come tema di discussione nazionale.
Questo processo vede protagonista Laterza dopo la morte di Benedetto Croce, ma anche Einaudi che nel 1955 apre il progetto delle opere di Gaetano Salvemini proprio con la raccolta dei suoi scritti sul Mezzogiorno (Einaudi pubblica solo quel volume e l’intero progetto viene realizzato compiutamente da Feltrinelli tra 1960 e 1978).
Ma il Sud è anche il luogo di storie di vita che non sono esemplari per la loro eccentricità, bensì per la loro canonicità.
Un esempio è la storia di Michele Mulieri in cui si ritrovano le vicende, le figure e l'immaginario dell’«Italia profonda», con un linguaggio che diventa scoperto, pubblico, non più sussurrato, erede del qualunquismo e antesignano del populismo tutt’oggi dominante.
È sufficiente l’incipit dell’intervista con cui Michele Mulieri dà inizio alla sua storia:
Sono italiano, ma l’Italia è mansionata da infami, ladri e barbari, gli enti e gli uffici mi hanno riempito di dolori e io ho affrontato la sorte menandomi all’avventura…
Dunque il Sud non è più percepito come residuo, bensì come «spia indiziaria» del "bravo italiano", dimostrazione che il mito del borbonismo del «sud buono» poi corrotto dall’arrivo dei Savoia sia solo un’altra invenzione.
Con la morte di Scotellaro seguirà un lungo silenzio, poi un interesse che intende recuperare le suggestioni dell’inchiesta avviata con Contadini al sud ma senza un’attenzione ai processi di trasformazione profonda che vive il Mezzogiorno d’Italia.
Eppure - per quanto impervia e complicata - quella rimane una strada aperta e un esempio significativo di che cosa possa essere un intellettuale che affianchi la sua vocazione letteraria allo studio della crisi del Mezzogiorno, senza trattarlo come un problema “marginale”, perché connesso con i processi che hanno plasmato il tempo presente.
Quella lezione non è andata perduta e si è espressa in varie forme.
Validi esempi sono il progetto di ricerca della rivista Meridiana avviato nel 1987, ma anche l’impegno di alcune voci del Mezzogiorno che sono cresciute negli anni tra fine millennio e nuovo millennio.
Per uno strano gioco del destino molto vicino alla vicenda biografica di Scotellaro, la voce più significativa è quella di un’intellettuale del Sud che ci ha lasciato troppo presto: Alessandro Leogrande (1977-2017).
Alessandro Leogrande mette al centro di Uomini e caporali il lavoro immigrato, che ricalca la condizione del bracciante pugliese o siciliano di un secolo prima. La sua indagine si focalizza sul caporalato e sulla raccolta del pomodoro - l’«oro rosso».
Scrive Leogrande nel marzo 2012 in Prima i braccianti:
Forse è scomparsa la civiltà contadina, almeno quella raccontata dai grandi meridionalisti italiani del Novecento
Ma precisa, negli Anni dello Straniero:
«L'eclisse non coincide con la fine della violenza e dello sfruttamento nelle campagne. Esso è sopravvissuto a quella fine, spesso unendo forme del vecchio e del nuovo […].
Stesso sistema di paga, stessi ordini, stesse forme di controllo, stessi alloggi durante le grandi raccolte. Stessa fame, stessa sete, stesse paure. Stesse punizioni per chi si ribella»,
L’intuizione di Scotellaro nel descrivere il contadino, le condizioni di miseria e le molte «zone grigie», torna come proposta di indagine, a lungo dimenticata, ma ancora capace di far comprendere non solo le contraddizioni profonde di una parte del paese ma anche una delle regole del funzionamento del «sistema Paese».
Ancora. Oggi.
Di
| Mondadori, 2019Di
| Laterza, 2000Di
| Altrimedia, 2010Di
| edizioni Dedalo, 1987Di
| Manni, 2016Di
| Congedo, 2011Ti potrebbero interessare
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