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Intelligenza artificiale: il vero e il falso della fotografia

Immagine tratta dal libro "Woman in the Mirror" di Richard Avedon&Anne Hollander, Abrams 2005

Immagine tratta dal libro "Woman in the Mirror" di Richard Avedon&Anne Hollander, Abrams 2005

Giunti alla seconda tappa del nostro “percorso a puntate” (leggi il nostro primo articolo sul tema), e dopo aver considerato le ragioni che si nascondono dietro il dilagare contemporaneo dell’AI, è il momento di ripercorrere le tappe evolutive del mezzo fotografico per tentare una possibile contestualizzazione.

Nell’era in cui i dogmi della staged photography sconfinano negli ingranaggi del reportage, annullando così ogni aderenza a specifici generi fotografici, i principi di intenzionalità narrativa e le sovrastrutture sociali risultato strettamente connesse. A questo proposito è importante ribadire che produrre immagini oggi significa assumersi la responsabilità del proprio peso sociale, in modo da contribuire alla costruzione di una pluralità libera nella parola e nel racconto iconografico.

Ecco che questo breve ragionamento ci riporta subito alla mente le parole del reporter Eddie Adams il quale, in seguito alla divulgazione dello scatto L’esecuzione di Saigon, nell’inverno del 1968 e nel pieno delle ostilità tra Stai Uniti e Vietnam, pronunciava la celebre frase: «il generale ha ucciso il viet-cong; io ho ucciso il generale con la mia macchina fotografica».

Potremmo allora, in prima istanza, affermare che non esiste recita - seppur in questo caso la presenza della macchina fotografica rivesta il tragico ruolo di un ciak filmico - quando l’autore oltrepassa una zona franca scommettendo sui limiti dell’inibizione umana.

Proviamo adesso però a dare forma a una lettura diversa del concetto di progettualità dicendo che la dimensione individuale, posizionata alla base di ogni scelta fotografica, come nel caso Adams, ha la capacità di influenzare l’altro. Secondo il critico statunitense A.D. Coleman, il compito della fotografia si fonda infatti su un pensiero di carattere polisemantico. Ovvero sul far apparire le cose, e decidere come le cose devono apparire, per volontà razionale o urgenza metaforica.

Non a caso Richard Avedon, nel ritrarre Marilyn Monroe, si concentra sul far emergere la persona dietro il personaggio: costringe l’attrice a dialogare con la sua interiorità. Guardando l’immagine ermetica che nasce dal loro incontro, viene da chiedersi quanto di Norma Jeane Mortenson sia contenuto sotto la maschera della Marilyn che ci viene mostrata.

In effetti, possiamo solo avanzare supposizioni. L’unico elemento utile alla nostra decodifica viene fornito dal fatto che l’obiettivo analogico di Avedon mette in scena una manovra virtuosa, abile a divorare l’inganno dell’esteriorità e testimoniare una sua personale lettura della diva californiana.

Appunto, una decisione che ci dimostra quanto l’arte fotografica sia ben più complessa di un semplice meccanismo attraverso cui restituire una realtà oggettiva. È tante cose insieme. È soprattuto uno strumento che si erge sulle contraddizioni che egli stesso produce.

Ma prendiamo ancora, come ultima riflessione pratica sull’argomento soggetto reale/oggetto fotografico, il modus operandi del fotografo statunitense Jeff Wall.

Il tebelaux intitolato Dead Troops Talk del 1992 sintetizza perfettamente l’oscillazione fattuale che la fotografia crea tra autenticità probatoria e allegoria contemplativa.

Osservando lo scatto, a primo impatto, la composizione suggerisce che il momento colto da Wall sia un frammento di battaglia, un fatidico istante bellico che l’autore sta vivendo in prima persona. In realtà, in questa immagine, non vi è niente di reale.

I “soldati” sono stati fotografati in studio, poi minuziosamente assemblati e disposti nella scena tramite una post-elaborazione dell’immagine. Ecco che l’oggetto-foto proietta ancora una volta la nostra percezione suggestionabile verso una dimensione fittizia, impossibile da inquadrare visivamente.

La fotografia di Jeff Wall non è quindi soltanto una risposta macchiettistica al processo di anestetizzazione emotivo insito nella modernità, ma vuole essere anche una celebrazione della precarietà interpretativa propria del medium fotografico. Una cassa di risonanza in cui la narrazione non resta vittima della fruibilità di un linguaggio universale, bensì brama una maggiore analisi semiotica.

Ragion per cui tutti gli elementi dell’immagine fanno parte di una struttura sintattica mutevole dove Jeff Wall, per scelta critica, rende impossibile distinguere la geometria di una morte puramente simbolica da quella corporea.

Pertanto, per resistere al giogo cognitivo che immagini come quelle appena descritte disegnano, occorre compire un atto di fede nella loro capacità di abbattere le barriere evolutive. Ed è da questa metodologia che scaturisce la scelta degli autori contemporanei di superare i canonici inscatolamenti normativi. Le loro immagini, esattamente come la vita, non hanno il compito di fornire risposte concrete ai nostri scetticismi.

Esse esistono come metà di un’opera che diventa completa unicamente tramite il contributo del suo osservatore. Perciò ognuno di noi, a maggior ragione in un contesto storico come il nostro, costellato di mezze verità, ha il diritto e il dovere di concorrere a questo processo di comprensione reciproco.

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Intelligenza artificiale. Un approccio moderno. Ediz. mylab

Di Stuart J. RussellPeter Norvig | Pearson, 2021

Woman in the Mirror

Di Richard AvedonAnne Hollander | Abrams, 2005

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