Una delle figure più care all’immaginario delle crisi è quella del Titanic. Siamo tutti sulla stessa barca, si ripete spesso. Ma le cose nel mondo reale non vanno così. Con buona pace di Ulrich Beck, che sosteneva che l’inquinamento è democratico mentre la ricchezza è gerarchica, la crisi climatica accentua le disuguaglianze e ne crea di nuove.
Insomma: magari siamo veramente sulla stessa barca, ma non viaggiamo tutti nella stessa classe. È per questo che uno dei punti all’ordine del giorno, alla COP27 di Sharm el Sheik, insieme ai difficilissimi negoziati sulla transizione ecologica, è proprio come gestire tali diseguaglianze. Le chiamano politiche di “loss and damage”: sono le compensazioni delle perdite e dei danni subiti dai Paesi più poveri e più esposti ai cambiamenti climatici. Il tema è concreto.
Secondo un rapporto reso noto a giugno, i 55 Paesi più vulnerabili hanno perso dal 2000 il 20% del loro PIL a causa di eventi estremi: 525 miliardi di dollari. La cosa ardua di questi negoziati, però, non è tanto stimare i danni, quanto persuadere i Paesi più ricchi a sottoscrivere accordi equi di compensazione. Tutto questo ha un nome: giustizia climatica. Ed è importante: come ha detto il Segretario generale ONU António Guterres, l’alternativa è tra un patto di solidarietà e il suicidio collettivo.
La giustizia climatica è parte di un discorso più ampio: quello della giustizia ambientale. Il tema non è nuovo, ma è diventato popolare da quando Papa Francesco, nella Laudato si', ha parlato di “ecologia integrale”: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale».
Spesso, un abisso divide chi gode dei benefici dello sviluppo e chi ne paga le conseguenze, in termini di inquinamento, accesso alle risorse, ghettizzazione urbana, salute. Anche l’ultimo libro di Greta Thunberg, The Climate Book, un monumentale volume a più voci, dedica pagine interessanti a tutto lo spettro di questa giustizia, con riflessioni che toccano razzismo ambientale, conflitti e rifugiati climatici, l’accidentato percorso della decolonizzazione, i costi diseguali del riscaldamento globale.
Nato in un altrove distante - l’India, l’Africa, l’America Latina o i ghetti tossici degli Stati Uniti - il concetto di giustizia ambientale negli anni si è sempre più avvicinato alle nostre latitudini. Ne sanno qualcosa a Taranto, nella Terra dei fuochi, e in tutte le “zone di sacrificio” della nostra Penisola.
Sempre più sono i libri che ne parlano: penso a Giustizia ambientale di Francesca Rosignoli, La nostra parte di Elly Schlein, e soprattutto a L’era degli scarti di Marco Armiero. Per Armiero, i rifiuti sono la vera cifra della nostra epoca, perché non sono solo scarti materiali, ma anche sociali: umani subalterni che diventano a loro volta discarica del sistema di produzione e consumo del turbo-capitalismo.
Presto gli studiosi si occuperanno anche delle migrazioni climatiche di casa nostra (qualcosa che non è così fantascientifico, stando ai rapporti periodici del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici). Intanto, però, lo fanno gli scrittori. Per esempio Bruno Arpaia, che nel 2017 ha scritto un documentatissimo romanzo di climate fiction, Qualcosa, là fuori. Qui i profughi sono insospettabili borghesi e intellettuali, che dalla vita “normale” di una città come Napoli, si trovano a marciare verso una Scandinavia chiusa dal filo spinato.
Arpaia è uno dei pochi italiani a essersi cimentato con questo genere letterario, che è molto in crescita nel panorama internazionale, specie da quando Amitav Ghosh, ne La grande cecità, ha indirizzato a scrittori e scrittrici una vera e propria chiamata alle armi, invitandoli a formare l’immaginario e la coscienza collettivi del riscaldamento globale.
La letteratura a volte prevede cose che non vorremmo vedere, e ce le fa sentire vicine, con il suo potere, quasi corporeo, di farci esperire una realtà che immaginiamo. Però questa previsione non è un destino o un vaticinio. È un “cautionary tale”: un racconto che ci mette in guardia, ed è utile proprio per questo. Perché il finale della nostra storia, ricordiamocelo, non è scritto. È questo il messaggio per i delegati a Sharm el Sheik.
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