La redazione segnala

Il Galateo di Della Casa che ci educa ancora

Sconvenevol costume è anco, quando alcuno mette il naso in sul bicchier del vino che altri ha

Quando si parla di buone maniere c’è sempre chi storce il naso pensando a una serie di regole anacronistiche e il cui senso, oggi più che mai, è davvero difficile da trovare. Si pensa spesso a un cerimoniale fatto di un’infinità di forchette poste a sinistra del nostro piatto (ma non si mangia con la destra? e quale devo usare per cominciare?), se sia conveniente indossare una cravatta anche se l’estate supera i quaranta gradi, e si debba dire buon appetito prima di mangiare oppure sia volgare e goffo. Insomma, tante regole che più che a nostro agio sembrano volerci mettere in difficoltà. Eppure quando Giovanni Della Casa scrisse il Galateo, le cose non stavano così: tutt’altro.

Galateo
Galateo Di Giovanni Della Casa;

Il "Galateo ovvero de' costumi", trattato nel quale, sotto la persona di un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de' modi che si debbono tenere o schifare nella comune conversazione, così precisa il sottotitolo, fu pubblicato nel 1558 da monsignor Della Casa, nunzio pontificio a Venezia.

E pensare che le nostre regole per il buon vivere – quelle che Csaba dalla Zorza, per capirci, ancora usa in Cortesie per gli ospiti – sono raccolte tuttora sotto questo nome, elegante e d’altri tempi: galateo. Che non significa nulla, nasce con Della Casa, che scrive il suo trattato su ispirazione del vescovo Galeazzo (più noto come Galateo, appunto) Florimonte. Uno di quei casi in cui una parola sopravvive al tempo perché riassume in sé meglio di ogni altra il suo significato, e di tempo ne è passato se pensiamo che la prima edizione risale al 1558.

Un’opera perfettamente allineata con la sua epoca, ma non tanto per le regole che descrive – non guardare nel fazzoletto dopo che ci si è soffiati il naso vale ancora oggi, in barba alla curiosità sulle nostre mucose –, quanto per la crisi che, parlando d’altro, riesce a rendere manifesta. Alla metà del Cinquecento gli eventi che erano accaduti e stavano accadendo erano innumerevoli: la Riforma di Lutero, il matrimonio di Ferdinando di Castiglia e Isabella D’Aragona, la fragilità del Sacro Romano Impero, l’Italia in balia delle potenze esterne, la letteratura non più a servizio dell’uomo ma privata quasi del tutto di quella spinta umanistica del secolo precedente.

Un susseguirsi di avvenimenti destabilizzanti che spiazzano chi ne ha la contezza: Della Casa aveva viaggiato come cortigiano in giro per la penisola e conosceva bene intrighi, equilibri e dinamiche del potere, perciò non restava indifferente agli accadimenti. E la prima questione che emerge quando mala tempora currunt è sempre la stessa, la questione morale. Come comportarsi quando di certezze non ce n’è nemmeno l’ombra? Ora, lungi dal dire in questa sede che il Galateo sia un trattato di etica, sarebbe ben più che scorretto. Eppure Della Casa, quando scrive, ha in mente una serie di precetti che rappresenta una filosofia pratica minima, le piccole cose indispensabili da fare per vivere bene.

Tant’è vero che il libro è scritto in forma di dialogo – anche se a parlare è solo uno, il vecchio saggio, perché il giovane allievo ascolta e tace. Una forma platonica, propedeutica, che voleva educare al vivere secondo norme che, con eleganza e garbo, potevano elevare un essere umano e toglierlo dall’abbrutimento. Per questo al tempo il Galateo era il contrario di come lo percepiamo oggi: l’obiettivo di Della Casa era proprio condividere quelle massime accessibili a tutti, magari cose da niente, ma che facevano la differenza in un tempo in cui la forma era diventata la sostanza. Chiunque poteva accedervi, chiunque poteva capire che ispezionare i propri denti con le dita dopo che si è mangiato è cosa da non fare, o che dare consigli non richiesti è supponente e maleducato, o che ancora le buone maniere attirano benevolenza, mentre quelle rozze antipatia.

Una morale minima, appunto, senza fondamenti o grandi filosofie alle spalle, ma per vivere bene ovunque – qualora si incontri chi la rispetta. Per questo sopravvive sino a noi, perché qualcosa, dopotutto, abbiamo imparato, anche se non sappiamo bene a cosa servono tutte quelle forchette.

E come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di coloro co’ quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi

Per imparare le buone maniere

galateo della corrispondenza. Strumenti, stili e formule di scrittura pubblica e privata

Di Michele D'AndreaLaura Pranzetti Lombardini | Gribaudo, 2015

Galateo in 5 minuti. Regole di stile e bon ton in pillole

Di Laura Pranzetti Lombardini | Gribaudo, 2018

Uomo e gentiluomo ovvero il manuale pratico del perfetto gentleman

Di Laura Pranzetti LombardiniMichele D'Andrea | Gribaudo, 2021

Manuale di eleganza per il perfetto gentiluomo

Di Élisabeth JammesÉtienne Pihouée | Il Saggiatore, 2022

Ti potrebbero interessare

La posta della redazione

La posta della redazione

Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone?
Scrivi alla redazione!

Conosci l'autore

(Mugello?, Firenze, 1503 - Roma 1556) scrittore italiano. Formatosi a Firenze e a Bologna, legatosi d’amicizia con Bembo a Padova (1527), nel 1529 tornò a Roma, dove poi, dal 1537, iniziò la carriera ecclesiastica. Nunzio apostolico a Venezia (1544-49), scrisse due famose orazioni: una per convincere i veneziani a una lega contro Carlo V, l’altra per indurre l’imperatore a riconsegnare alla chiesa Piacenza. Durante il papato di Giulio III, si ritirò nel trevigiano (1553-55). Con l’elezione di Paolo IV tornò a Roma e divenne segretario di stato. Amico di Berni e di Firenzuola nel primo periodo romano, scrisse 5 capitoli berneschi di argomento osceno. Più importanti le altre opere: oltre alle orazioni, alcune eleganti scritture in latino, un ricco epistolario familiare e diplomatico e soprattutto le Rime (postume, 1558) d’imitazione petrarchesca (64 componimenti, più alcuni rifiutati o di dubbia attribuzione). In esse, più che sui motivi amorosi, Della C. indugia sulle dissonanze drammatiche della vita, su quel contrasto fra il quotidiano e l’ideale che risulta la cifra propria della sua produzione più impegnata e che testimonia dell’inquietudine e della condizione contraddittoria di tutta un’epoca. Ne deriva una poesia finemente lavorata, attenta alla musicalità della singola parola prima che del verso, grave e solenne, eppure inquieta, caratterizzata da un uso originale dell’enjambement.Queste tensioni irrisolte non sono estranee alla sua opera più fortunata e problematica, il Galateo, un trattatello, composto su istanza di Galeazzo Florimonte (da cui il nome) tra il 1551 e il 1555, e pubblicato postumo nel 1558, dove Della C., nelle vesti di un anziano ricco di esperienza ma illetterato, istruisce un giovinetto nelle regole di buona creanza. Il trattato, scritto con bonarietà arguta e in una prosa di tono medio (in cui la ricerca degli effetti del «parlato» non altera un equilibrio di ascendenza boccacciana), non mira più agli alti ideali del rinascimento, ma a una sorta di precettistica che, sorvegliata da un ordine morale, guidi il gentiluomo nei casi minuti della sua vita privata.

Leggi di più Leggi di meno
Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente