Il libro di cui hai bisogno si trova accanto a quello che cerchi
Nella teoria della letteratura, il termine straniamento è stato usato per lo più con riferimento al teatro di Bertold Brecht. Si tratta di un effetto di sconvolgimento della percezione abituale della realtà, al fine di rivelarne aspetti nuovi o inconsueti, che il narratore induce nel lettore attraverso vari espedienti; uno fra tutti è il classico colpo di scena congeniato in modo tale che, a segreto svelato, il lettore possa ravvisare una lunga serie di indizi disseminati lungo il testo che mostrano come la soluzione dell’enigma fosse già sotto i suoi occhi fin dalla prima riga. È il caso del libro La fine è nota, di Geoffrey Holiday Hall in cui, come dice il titolo stesso, il finale della storia è noto già dal primo capitolo: un uomo misterioso suona il campanello dell’elegante casa di Bayard Paulton e viene fatto accomodare in salotto dalla moglie che si assenta un attimo per chiamare al telefono il marito che si trova ancora in ufficio. Al ritorno della signora Paulton, l’uomo misterioso è scomparso, la finestra del salotto è aperta e l’uomo è sfracellato sul selciato antistante il palazzo. A voi lettori il compito di sbrogliare la matassa quando scoprirete che Bayard Paulton non sa chi sia l’uomo che lo stava cercando così disperatamente da compiere un gesto simile. Vi assicuro che leggendo il finale proverete anche voi quel senso di straniamento per aver avuto tutti gli elementi per capire cosa fosse successo, fin da quel primo capitolo. Io ho svelato il mistero a pagina 218 di 245: vi sfido a fare di meglio!
Ma lo straniamento è anche un’emozione che proviamo quando ci rendiamo conto che le nostre risposte a un quesito su cui avevamo delle certezze, sono invece sbagliate o comunque non convincono il nostro interlocutore. In Niente di Janne Taller, l’autrice ci rimanda il punto di vista di Pierre Anthon, tredici anni, che decide che non c’è niente che abbia senso e dunque “se niente ha senso, è meglio non fare niente piuttosto che fare qualcosa”; si arrampica sul ramo di un albero di calviniana memoria, a fissare il vuoto, non facendo assolutamente nulla. I compagni, incapaci di comprendere la sua rassegnazione, decidono di costruire una “catasta del significato”: una sorta di raccolta di cose che abbiano un significato. Ma quando Dennis consegna per la causa solo alcuni dei libri (quelli a cui teneva meno) della sua serie preferita, Ole lo costringe a portare anche quelli mancanti, altrimenti il suo sacrificio non avrebbe avuto significato. E quando Dennis cede e consegna tutta la serie, si ricorda di quanto Sebastian tenga alla sua canna da pesca, e Sebastian, dal canto suo, sa che Richard ama il suo pallone da football nero...e via così in un'escalation macabra alimentata dal risentimento, e poi dall'odio, che alzerà sempre di più la posta in gioco alla ricerca forse più di vendetta, che di significato. Straniati i compagni che non riescono a trovare il vero senso della vita, straniati noi che leggiamo dei loro tentativi e ci rendiamo via via sempre più conto che non sapremmo come aiutarli.
C’è poi chi ha voluto fare del senso di straniamento la cifra stilistica dell’intero romanzo. A inserire questo libro in questa cinquina ci tengo particolarmente. Ho comprato Teorie della comprensione profonda delle cose di Alfredo Palomba, all’ultima edizione del Salone del libro di Torino. Ed è senza dubbio il libro responsabile dell’idea per questo articolo. (Piccola nota autobiografica: le mie cinquine nascono sempre da un libro specifico, non dal tema che poi legherà tutto. Parte tutto da un libro che mi folgora e che poi, in un moto spontaneo, chiama gli altri quattro).
Teorie è un romanzo polifonico che mette in scena le vicende di diversi personaggi ciascuno rappresentante una monade con una fervente attività al suo interno, ma che, se lasciata inerte, è impossibile influenzare con eventi esterni. Toni Dattero, l’Uomo Vuoto, il blogger, Don Pagnotte e il ragazzino, sono ciascuno un sistema-mondo a sé stante, una bolla che porta avanti una propria teoria. Il senso di straniamento qui non emerge quando l’autore si diverte a sovrapporre progressivamente queste monadi indipendenti fino a farle compenetrare, più o meno brutalmente; né quando ci troviamo persi, come al centro di un gioco di specchi in cui non sappiamo più discernere cosa è reale e cosa è finzione; il vero senso di straniamento arriva quando ci rendiamo conto che in quelle stesse bolle viviamo noi. Ciascuno di noi è il dittatore incontrastato della sua teoria della comprensione profonda delle cose che ogni tanto si schianta contro la teoria di qualcun altro e l’unica emozione che si riesce a provare è proprio il senso di straniamento. Com’è possibile che l’altro non la veda come me? Cortocircuito.
Straniante è anche Le sette morti di Evelyn Hardcastle di Stuart Turton forse più per lo stile della narrazione che per la trama in sé. Si tratta, infatti, di un libro molto particolare che ha quasi l’andamento di un videogame in cui puoi rigiocare ogni volta la stessa scena aggiungendo progressivamente più informazioni. Siamo in Inghilterra, in una maestosa tenuta di campagna, durante un ballo in maschera a cui partecipano personaggi appartenenti all’alta società. Durante lo spettacolo pirotecnico dei fuochi d’artificio, una delle esplosioni è in realtà il colpo di pistola che uccide Evelyn, la giovane figlia dei padroni di casa. Il colpevole deve essere tra gli invitati. Un giallo chiuso, alla Agatha Christie, permeato, però, da un continuo cambio di prospettiva generato da un gioco crudele a cui viene sottoposto uno dei convenuti a Blackheath House, Aiden Bishop, condannato a rivivere quotidianamente la scena della morte di Evelyn Hardcastle, dopo essersi svegliato nel corpo di un ospite ogni giorno differente. È un artificio stilistico che suggerisce quanto la verità dei fatti non sia che la somma di una moltitudine di prospettive.
Chiudo con uno dei libri che ha segnato la mia adolescenza, ma che è stato recentemente ripubblicato in una nuova edizione integrale che reintroduce tutte le parti tagliate nelle edizioni precedenti. Sto parlando di Le nebbie di Avalon di Marion Zimmer-Bradley libro che è emblematico sotto l’aspetto del cambio di punto di vista. Innanzitutto quello dei personaggi: l’autrice riscrive infatti tutto il ciclo arturiano dal punto di vista delle donne della leggenda. Igraine, Ginevra, ma soprattutto Morgana, nella versione di Zimmer-Bradley sono protagoniste della storia e non più solo personaggi secondari. Ma l’altro grande ribaltamento di prospettiva, sicuramente straniante per il modo stesso in cui siamo abituati a studiare la storia di quegli anni, è quello relativo all’avanzata dei romani, già cristianizzati, in un’Inghilterra ancora fortemente pagana. Anche qui il conflitto viene rovesciato e il punto di vista non è quello dei preti-guerrieri cristiani, ma quello dei druidi pagani che si vedono portare via il proprio mondo simbolico e spirituale.
Perché forse il senso di straniamento è solo il primo passo verso l’accettazione di un punto di vista diverso dal nostro.
Alla prossima cinquina!
Le altre strade di carta
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