10 libri sul comò

Il dialetto nei libri

Illustrazione digitale di Allegra Alberoni, 2023, studentessa presso l'Istituto Europeo di Design di Milano

Illustrazione digitale di Allegra Alberoni, 2023, studentessa presso l'Istituto Europeo di Design di Milano

Capita sempre più spesso che libri di grande successo abbiano tra le connotazioni che li caratterizzano proprio l'uso del dialetto.

Se un tempo il dialetto veniva identificato con il termine “volgare” quasi a indicare la differenza tra lingua “popolare” e lingua colta, ora il dialetto nei romanzi o racconti diventa un elemento caratterizzante della narrazione.

Sempre più spesso il dialetto diventa il simbolo distintivo di un personaggio, pensiamo ad esempio a Rocco Schiavone, il commissario romano trasferito ad Aosta nato dalla penna di Antonio Manzini. È il suo parlato romanesco a differenziarlo in modo evidente dai suoi colleghi.

Torniamo per un momento indietro nel tempo fino al Verismo che, come il Naturalismo francese, si basa sul raccontare la vita quotidiana così come si propone, spesso indugiando maggiormente sulle vicende dei più poveri. Il padre di questa corrente, Giovanni Verga, non si affida completamente al dialetto nelle sue opere, per il timore che non circolino a sufficienza negli ambienti giusti, ma decide di servirsi di un italiano contaminato qui e là, in maniera impeccabile, dal vernacolo.

Tornando ai nostri giorni, senza dubbio quando si parla di dialetto nei libri il primo nome che ci viene in mente è quello di Andrea Camilleri, che è stato uno degli autori italiani maggiormente amati grazie al personaggio senza eguali cui ha dato vita: Salvo Montalbano, commissario di polizia a Vigata, paese immaginario della Sicilia.

Per la lingua di Camilleri è stato coniato il termine “camillerese” che sta ad indicare una commistione di registri che l’autore utilizza nei suoi romanzi e che riguardano vari livelli linguistici (da quello sintattico a quello morfologico) e varie parti del discorso ( sostantivi, avverbi e congiunzioni). Si genera, così, una lingua ibrida che mescola l’italiano ad un dialetto che può identificarsi nel siciliano e che Camilleri stesso, in un’intervista con Gianni Bonina per Rai cultura, asseriva essere l'agrigentino.

Uno dei padri letterari di Camilleri è Leonardo Sciascia, conterraneo di Camilleri e come lui appassionato di commistioni linguistiche. Il plurilinguismo di Sciascia è però molto meno marcato di quello di Camilleri.

Se fino agli anni ’60 il dialetto veniva utilizzato per calcare la differenza di classi sociali o per dare un guizzo leggero alla narrazione, con Sciascia il dialetto diventa il modo per identificare l’ambiente narrato. E spesso l’italiano viene affiancato da parole in dialetto creando il parlato giornaliero che, ad oggi, rappresenta la realtà della nostra nazione.

Altro esponente che ha raccontato personaggi e situazioni attraverso l’uso del dialetto è Pier Paolo Pasolini che con Ragazzi di vita sceglie di utilizzare il dialetto romano affinché si osservi la storia attraverso le esternazioni linguistiche dei protagonisti.

Volgendo lo sguardo agli ultimi anni, nel romanzo L’amica geniale di Elena Ferrante le due protagoniste, Lila e Lenuccia, nel loro parlato quotidiano usano entrambe diversi termini in dialetto napoletano. Quello di Lila è più stretto e meno contaminato da parole in italiano, fatto che trova riscontro nell’estrazione sociale della protagonista, mentre Lenuccia, che pure parla il dialetto, spesso introduce nei suoi discorsi dei periodi in italiano, chiaro riferimento alla situazione famigliare della ragazza, leggermente più agiata di quella della sua amica.

Terminiamo quindi col dire che il dialetto nei libri è un valore aggiunto che, se utilizzato nel modo giusto, aiuta lo scrittore prima e il lettore poi a dare profondità alla storia, donare carattere al personaggio e connotare l’ambientazione.

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