Mi hanno sempre affascinato i margini, gli spazi residuali della metropoli. Spazi il cui utilizzo distorto rappresentava non necessariamente una liberazione, ma una mutazione, un’alterazione della realtà quotidiana
Da un lato, la Roma da bere tutta d’un fiato, buttandola giù come uno shottino. Dall’altro, una periferia di capannoni abbandonati, graffiti e strade deserte su cui sfrecciare in motorino, diretti al primo rave party di primavera. Una notte in cui immergersi senza falsi pudori nel ribollente melting pot della capitale, celebrando con tutti i crismi un rito iniziatico che dovrà lavare via il grigiore di una città in cui non c’è posto per gente come Bruno, Bambi, Torazina e Cubo.
E allora quel posto te lo crei. Perché se non riesci a uscire dal tunnel, tanto vale arredarlo.
A un anno da Hic (Coconino 2020), Roberto Grossi ci regala uno spaccato generazionale tagliato con l’accetta, crudo e tenero allo stesso tempo. Cassadritta pare infatti muoversi su un duplice binario: da una parte è il racconto di una serata da ricordare, dall’altra una nostalgica lettera d’amore a un periodo ormai concluso.
Con "Cassadritta" Roberto Grossi ci trascina in una notte del 1995, ricostruendo la scena irripetibile e vibrante dei rave illegali degli anni Novanta.
Il montaggio del graphic novel è serrato, il ritmo è incalzante come quello di un pezzo techno a 180 bpm ma sa anche distendersi e rarefarsi, traducendo in prospettive nitide ed efficaci (Grossi è architetto) i vuoti che permeano le terre di nessuno attraversate dai protagonisti. La vera protagonista, però è la musica, che non costituisce solo la colonna sonora della storia, ma spesso sembra diventarne la colonna vertebrale, indispensabile per catturare lo zeitgeist di un’epoca di spaesamento ed emarginazione.
Cassadritta procede per lampi e flashback, tanto che i capitoli si aprono con i classici simboli di rewind, pause e play in una commistione fra musica e narrazione che sembra a tratti uscita da un romanzo di Nick Hornby sotto acido.
È ora di togliere il coperchio che copre questa città di macerie. Questa gigantesca pentola dimenticata sul fuoco a bollire… piena di rabbia covata, di frustrazioni represse, di costrizioni subite. Togliamo il coperchio. Facciamoli ballare!
Riferimenti, citazioni, atmosfere: tutto in Cassadritta appare fortemente radicato negli anni Novanta, eppure è difficile non avvertire un forte sentimento di evasione proiettato anche sui giorni in cui viviamo. I protagonisti non puntano ad altro che a stordirsi a ritmo di musica e dimenticare – almeno per una notte – la quotidianità che li soffoca ogni giorno di più.
Ecco quindi che il capannone in cui si celebra il rave diventa una sorta di limbo, un non-luogo dimenticato e scalcagnato tanto quanto le persone che si trova a ospitare. Difficile dimenticare quanto anche Il grande prato – prima graphic novel pubblicata da Grossi sotto Coconino – fosse fortemente ancorata al territorio, con la metafora del manto erboso ultimo baluardo di una natura ormai fagocitata da una crescita urbana devastante.
Due gemelli identici, indistinguibili, chiamati per questo "i Siamesi", vivono insieme allo zio alcolizzato in una baracca vicino al fiume, in una squallida periferia urbana. Il grande prato, con il suo piccolo fiume puzzolente, è l'ultimo lembo di una natura ormai scomparsa, fagocitata da una crescita urbana devastante.
Il parallelismo paesaggio-stato d’animo finisce quindi per essere centrale nella poetica di Grossi, cantore della periferia urbana e del suo indefinibile e incasellabile substrato umano, e Cassadritta ne diventa l’affresco a tinte fluo.
Un’elegia a un momento storico irripetibile, un inno all’amicizia, un Trainspotting in salsa cacio e pepe per ricordarci che la notte è sempre più buia prima dell’alba.
Una storia ambientata nel Parco Archeologico del Colosseo. Fermatevi semplicemente qui, davanti al monumento simbolo della Città Eterna. Vedrete i turisti del presente e i viaggiatori del passato sistemarsi accanto alle rovine, sollevare la testa e liberare lo sguardo alla meraviglia.
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