Ho perso un po' la vista, molto l'udito. Alle conferenze non vedo le proiezioni e non sento bene. Ma penso più adesso di quando avevo vent'anni. Il corpo faccia quello che vuole. Io non sono il corpo: io sono la mente
Un’esile vecchietta, rugosa e canuta, ma ancora attiva, appassionata e arguta. Molti di noi la ricordano così, soprattutto i più giovani, che hanno avuto modo di conoscerla solo negli ultimi anni della sua lunga e straordinaria vita.
Rita Levi Montalcini nasce a Torino nel 1909 in una famiglia ebrea da Adamo Levi, ingegnere e Adele Montalcini, pittrice; Rita viene al mondo con la gemella Paola (in futuro nota pittrice) dopo Gino e Anna, e muore dieci anni fa, il 30 dicembre 2012, a ben 103 anni, dopo aver vissuto pienamente: scienziata e ricercatrice, è la prima e unica donna italiana a essere stata insignita del Premio Nobel per la medicina, nel 1986, oltre che essere diventata, nel 2001, senatrice a vita.
Questi enormi traguardi non sono certo stati scontati, soprattutto per una donna della sua generazione: Rita dovette lottare fin dalla giovane età. Il padre, di educazione vittoriana, era contrario alla volontà della figlia di iscriversi alla facoltà di medicina, ritenendo che per una donna la carriera lavorativa fosse inconciliabile con il ruolo di moglie e madre. Rita ricorda di aver fatto presente al padre che non intendeva diventare né moglie né madre, chiedendo dunque di lasciarla libera di fare quel che voleva. Il padre affermò “non ti approvo, ma non posso impedirtelo”. Ebbe ragione lei: si laureò nel 1936 a pieni voti.
Gli anni universitari furono fondamentali, e non solo dal punto di vista accademico: importanti gli incontri con il professor Giuseppe Levi, che divenne il suo mentore per tutta la vita, e i compagni di corso Salvador Luria e Renato Dulbecco, futuri premi Nobel.
La prova più dura, però, arrivò nel 1938: con l’emanazione delle leggi razziali, Rita venne sospesa dalla sua attività di neurologa. Dovette così emigrare a Bruxelles per continuare le sue ricerche. Rientrata a Torino nel 1940, poco prima dell’invasione nazista del Belgio, dovette ingegnarsi per trovare il modo di proseguire i suoi studi in ambito neuroscientifico: allestì un vero e proprio laboratorio in camera sua. Nonostante tutte queste difficoltà, dichiarerà in seguito di essere convinta di aver avuto una vita fortunata, che tutto quello che sembrava contro di lei si è alla fine rivelato un bene e che, in particolare, lavorare nella sua camera da letto l’ha poi portata a Stoccolma tre decenni dopo.
La grande occasione giunse nel 1947: venne invitata negli Stati Uniti dal professor Viktor Hamburger, biologo della Washington University di St. Louis, che le offrì di studiare insieme il sistema nervoso embrionale dei vertebrati. In principio sarebbe dovuta rimanere negli Usa solo qualche mese, ma alla St. Louis trovò un ambiente stimolante, perfetto per la sua attività di ricerca, e finì per rimanervi trent’anni. In particolare, alla St. Louis collaborò con lo scienziato Stanley Cohen, arrivando con lui a isolare e studiare la molecola NGF (nerve growth factor, fattore di crescita nervoso). Insieme, i due scienziati scoprirono l’esistenza di una vasta famiglia di proteine, in seguito chiamate neurotrofine, aventi la proprietà di favorire e guidare la crescita delle cellule nervose. Fu una scoperta rivoluzionaria, che le valse il Nobel: come lei stessa raccontò, le cellule a cui veniva data questa proteina venivano totalmente sconvolte, entravano nei vasi, penetravano dove non dovevano, dimostrando quindi che il sistema nervoso non era rigidamente fissato e statico, ma dinamico. Questo era contro i dogmi del tempo, ovvero la convinzione che “tutto è fisso e nulla può cambiare nel sistema nervoso”. Rita Levi Montalcini dimostrò invece che il sistema nervoso è tutt’altro che fisso, è dinamicamente sottoposto a condizioni ambientali. Per chi fosse interessato, tra le più importanti testimonianze biografiche della sua vita scientifica, vi è la raccolta di lettere Cantico di una vita, in cui la scienziata racconta l’evoluzione dei suoi studi.
Tutt’oggi l’NGF è considerato una neurochina in grado di agire sul sistema nervoso, endocrino e immunitario e viene studiata per la cura di diverse malattie, una su tutte l’Alzheimer.
Quella di Rita Levi Montalcini fu una vita di lavoro duro (dormiva pochissimo: tre-quattro ore per notte!), passione, studio incessante e curiosità senza confini – raccontata anche nell’autobiografia Elogio dell’imperfezione. Lei stessa affermò, in seguito, di essere soddisfatta della vita vissuta e di non avere rimpianti perché “aveva fatto quel che voleva fare”. Questo credo sia il suo più grande messaggio alle future generazioni, molto più dei traguardi scientifici e dei riconoscimenti ottenuti: cercare di vivere una vita attiva, animata da determinazione e passione, inseguendo i propri sogni, ciò che si vuole diventare, anche a costo di andare contro tutto e tutti:
Nella vita non bisogna mai rassegnarsi, arrendersi alla mediocrità, bensì uscire da quella “zona grigia” in cui tutto è abitudine e rassegnazione passiva, bisogna coltivare il coraggio di ribellarsi
Data anche la sua esperienza, la sua lotta per affermarsi, Rita Levi Montalcini fu sempre dalla parte delle donne e le esortò in ogni occasione a essere libere, coraggiose e combattive, a rendersi conto dell’enorme potenziale umano che è in loro possesso, spesso non utilizzato perché sottomesso all’altro sesso; Montalcini sottolineava come la subordinazione della donna dipendesse solo dalla forza fisica, ma non mentale, sulla quale lei incitava a puntare.
Tra le altre cose, si schierò a favore dell’aborto e si impegnò molto per l’istruzione delle bambine e delle ragazze, creando anche una Fondazione con lo scopo di sostenere l’istruzione delle donne africane, tuttora attiva.
Le donne hanno sempre dovuto lottare doppiamente. Hanno sempre dovuto portare due pesi, quello privato e quello sociale. Le donne sono la colonna vertebrale delle società
Il valore che la Montalcini attribuiva all’istruzione e all’esercizio delle facoltà intellettuali era altissimo, riteneva che allenare il proprio cervello, esprimendone al meglio le capacità, fosse condizione imprescindibile per una vita degna. Imperdibile, a questo proposito, il saggio Abbi il coraggio di conoscere.
Rifiutate di accedere a una carriera solo perché vi assicura una pensione. La migliore pensione è il possesso di un cervello in piena attività che vi permetta di continuare a pensare ‘usque ad finem’
A chi le domandava un consiglio per i giovani, rispondeva parlando di valori: riteneva che la vita di ciascuno fosse determinata dai valori in cui credeva, valori etici, prima di tutto, ma anche culturali, e sosteneva che l’ancoraggio ai suoi valori l’avesse portata a superare i momenti più difficili e persino tragici della sua esistenza. Infine, affermava che l’aderenza a certi valori potesse condurre ciascuno all’esercizio di una vita piena, una vita in grado di lasciare una traccia ai posteri, proprio come quella che ha lasciato lei, di valore inestimabile.
Quando muore il corpo sopravvive quello che hai fatto, il messaggio che hai dato
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