Tutto ciò che amo lo amo di un unico amore
La poesia – quella buona, onesta, ossessionante – sa che non arriverà mai alla verità. Vi tende, cerca di raggiungerla con ogni mezzo a sua disposizione, dal ritmo all’estetica, ma fallisce; non si ferma, il lavoro della poesia è continuo, ma fallisce sempre, e il poeta riprende, ogni volta che si schianta contro l’impossibilità, daccapo la sua ricerca del vero. Crede di essere una linea che, presto o tardi, piomberà sul nucleo delle cose, che sta immobile al centro del mondo ad aspettare un poeta che lo racconti. Ma la poesia è sì una linea, ma la è anche la verità: e queste due linee sono parallele, non tangenti. Possono anche essere separate da un nonnulla, ma non si incontrano mai, se non all’infinito. Questo, Marina Cvetaeva lo sapeva, e dedicò tutta la sua vita a raggiungere l’infinito in cui poesia e mondo si sarebbero, infine, toccati.
Scrisse poesie su qualsiasi argomento, ma preferì sempre l’amore. È, del resto, il sentimento che più si avvicina al lavoro poetico: irraggiungibile se non a costo di vederlo morire, o, peggio, mentire. Marina Cvetaeva voleva trovare la verità dell’amore, scoprirne gli angoli più reconditi, anche a costo di sprofondarvi e farci sprofondare chi le stava accanto, suo marito Sergej, e i suoi figli, Irina, Alja e Mur. Nelle sue poesie, ciò che emerge con più forza è il sentimento di incommensurabilità tra il suo sentire di poeta – lei non volle mai farsi chiamare poetessa – e il mondo di cui voleva raccontare. Questo spazio, anche minimo, se vogliamo, ma incolmabile, fu la sua passione più grande e, al contempo, la sua ossessione più rovinosa.
Io sono l’effimera schiuma di mare
Marina Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca l’8 ottobre 1892. Suo padre, Ivan Vladimirovič Cvetaev, era professore di storia dell’arte all’università, ma era figlio di contadini: proveniva da una miseria profonda che gli aveva insegnato l’umiltà e la gratitudine. In seconde nozze aveva sposato Marija Alexandrovna Mejn, ma era un compromesso. A lui, quella donna, piaceva, e lei aveva bisogno di qualcuno che la chiamasse moglie, dopo aver fatto scandalo per una relazione clandestina con un uomo sposato di cui era profondamente innamorata. Rinunciò alla carriera di pianista per essere – e ci riuscì – una brava moglie per Ivan e una buona madre per i suoi due bambini nati dal precedente matrimonio. Avrebbe voluto dei figli maschi, ma nacquero due femmine: Marina e Anastasija. Sperò, almeno, che diventassero musiciste.
Ma poi Marija si ammalò di tubercolosi, e l’idillio famigliare che Marina ricorda in tante delle sue poesie si spezò, anche se non del tutto. Cominciarono a cercare un’aria più salubre per le condizioni della donna in giro per l’Europa, in Svizzera, Italia, Germania. Passò anche da Nervi, in Liguria, ma la malattia di Marija non migliorò, e lei cominciò a rimpiangere di non poter vedere le proprie figlie crescere e di aver rinunciato alla vita che la rendeva felice. «Con una madre così – scrive Marina – non potevo che diventare poeta»: una fame di vita che si tramandava di madre in figlia, e che trovò in Marina un compimento efficace e dirompente.
Nei miei sentimenti, come in quelli dei bambini, non esistono gradi
Cvetaeva significa, in russo, dai colori vivaci, e Marina prese quest’etimologia come fosse una predestinazione. Il suo carattere, sin da bambina, era così: dai colori vivaci. Dopo la morte della madre frequentò il ginnasio, poi alcuni corsi di letteratura alla Sorbonne, ma non riuscì a finire gli studi, perché non amava le regole, le imposizioni e voleva scrivere e leggere ciò che piaceva a lei. A diciannove anni, sulle rive del mar Nero, incontrò il suo futuro marito, Sergej Jakovlevič Ėfron, del quale si innamorò con un’intensità che non si smorzerà con il passare del tempo. Ma anche l’idea di relazione non le era congeniale: Marina ebbe numerosi amanti, uomini e donne, che ferirono il marito, ma di cui lei non fece mai mistero. Una persona è troppo poco per capire la verità sull’amore.
Oh, molte donne vi hanno amato e vi ameranno più forte. Tutte – di più. Nessuna – così
Con la rivoluzione russa fu costretta a emigrare. Lo spiccato senso dell’individuo e della libertà personale spingevano Marina a non appoggiare le idee dei bolscevichi, e questo la costrinse ad andarsene dalla Russia, sola insieme ad Alja. Irina era morta di fame in un orfanotrofio, cui era stata affidata perché Marina non poteva mantenerla; Sergej combatteva, invece, nell’armata bianca, e da tempo non si avevano sue notizie. Grazie alla presenza di diverse case editrici russe anche all’estero, continuò a pubblicare. Il marito ritornò, i due ebbero un altro figlio, Mur, e Marina frequentò i migliori salotti intellettuali di Parigi, Praga e Berlino.
Non c'è dolore o rovina, non c’è vergogna o disonore che io non abbia riconosciuto nei miei, nei tuoi mali
La vita di Marina Cvetaeva precipitò, però, abbastanza in fretta: non riusciva più a pubblicare, perché molte case editrici russe chiusero, gli amici la abbandonarono, considerandola intransigente e filosovietica, e la figlia Alja tornò in Russia. Si sentiva straniera ovunque, tanto più al pensiero di tornare in quella patria che l’aveva costretta ad andarsene. Per amore della figlia, e anche perché non aveva più denaro per condurre nessun tipo di vita, tornò a Mosca. Lì cominciò una vita indigente, e fu costretta ai lavori più degradanti per racimolare qualche soldo. Non scrisse più nulla, ma vagabondò da un’elemosina all’altra, finché il marito non morì, e finché anche lei non si cominciò a sentirsi schiacciata dal mondo che la circondava.
Il 31 agosto 1941 si impiccò nella catapecchia sulla riva del fiume che aveva affittato una volta tornata in Russia. La poesia, per Marina Cvetaeva, era un modo per suturare le proprie ferite: una volta scomparsa quella panacea miracolosa, le sue piaghe hanno iniziato a grondare. Alla fine, quell’anima piena di mondo debordò senza scampo. Tra ciò che aveva dentro e ciò che vedeva al di fuori, Marina percepiva uno stridore eccessivo. E lei, che fu sommamente libera sempre, che non fu compresa fino in fondo in nessuna delle sue scelte, perché infintamente personali e irraggiungibili, abbandonò quell’universo in fiamme che nulla aveva più da darle e a cui non avrebbe lei stessa potuto dare più niente.
La verità è che bisognava leggerla attentamente. Quando lo feci rimasi senza respiro per l’abisso di purezza e forza che si spalancava
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| SE, 2020Di
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