Il sismografo

Il futuro del libro, reloaded

Illustrazione di Asia Cipolloni, 2021

Illustrazione di Asia Cipolloni, 2021

C'è chi è incline a vedere il bicchiere mezzo pieno e chi mezzo vuoto; sul fatto che il bicchiere sia comunque indifferente ai nostri giudizi e resti realisticamente mezzo bicchiere si sono spesi fiumi d'inchiostro in fiumi di secoli. Quando si iniziò a capire che la crisi pandemica sarebbe durata anni, c'era di che far tremar le vene e i polsi a tutto il mondo del libro: librerie chiuse, e-commerce saturato da beni di prima necessità, imprevedibile il comportamento dei lettori chiusi in casa, distratti dalle news, dai social, sfiniti dal telelavoro e preda delle lusinghe dell'entertainment meno impegnativo. Chi mai si sarebbe messo a leggere un libro? Il contenuto del bicchiere - ovvero la conclamata e universale crisi della lettura - poteva rapidamente diventare una brodaglia maleodorante. Così non è stato, anche se resta la sensazione di averla scampata bella.

Sbagliato. Per Markus Dohle non c'è mai stato negli ultimi decenni un periodo migliore per l'editoria libraria, e il Covid ha confermato che il libro è più vivo che mai. Tedesco, cinquantatré anni, comunicatore vivace e argomentativo, una rarità tra i CEO editoriali che tendono a stare abbottonati, Dohle ha passato in Bertelsmann (la prima holding europea dei media) quasi trent'anni, occupandosi di distribuzione, logistica, tipografie, merger e acquisizioni, ristrutturazioni aziendali. La sua formazione è "ingegneria finanziaria dei mercati saturi": insomma, un outsider, ma con un'esperienza a tutto campo che lo ha portato nel 2008 al timone di Random House e, nel 2013, dopo la fusione con Penguin, a dirigere il primo gruppo editoriale del mondo nel settore trade, il cuore dei titoli che troviamo nelle libreria di mezzo mondo: fiction, saggistica, manualistica, libri per ragazzi.

In una lunga intervista con Porter Anderson, il David Letterman dell'editoria, all'ultima Buchmesse di Francoforte, Dohle affronta il presente e il futuro del libro partendo dal nocciolo del problema: mettersi dalla parte dei lettori. Al primo posto vengono le recenti analisi di psicologi e neuroscienziati cognitivi, cosa del tutto inedita per i businessman del libro:  «Viviamo in tempi molto particolari e la lettura di testi lunghi (long-form reading) è sempre più importante. In un mondo condizionato da un flusso costante di breaking news, l'editoria ha sempre proposto un'immersione profonda, "olistica". Con la non-fiction in particolare, dobbiamo essere in grado di dare informazioni ampie, auspicabilmente basata su fatti e verità, ed essere in grado di inspirare, educare e interessare i lettori. Inoltre le neuroscienze hanno dimostrato che la lettura immersiva di testi lunghi è in grado di creare nuove sinapsi. Nessun altro media è in grado di fare questa operazione: immergersi nella fiction, nella vita di personaggi complessi, ci aiuta a metterci nei panni degli altri, vedere il mondo da altre prospettive, creare empatia e valori umani, specialmente fra i più giovani».

Il discorso si sposta sui media: «Tutto il mondo dei media, editoria inclusa, deve riconquistare la fiducia dei lettori». Se i social sono l'unica fonte di informazione per moltissime persone, che hanno in questo modo perso il concetto di verità condivisa, basata sui fatti, siamo nel bel mezzo di una "crisi della verità" - taglia corto Dohle. Ma con la pandemia è cresciuto il bisogno di libri, «e la prima domanda che mi sono posto è se saremmo stati capaci di far arrivare i libri ai lettori, di far funzionare la macchina distributiva. A tempo di record abbiamo tutti dovuto imparare a far arrivare i libri in un mondo che lavorava al 100% in remoto, senza nessuno in ufficio. È stata una grande opportunità». Certo, ammette, è stata una corsa sull'ottovolante, ma un altro grande aspetto da considerare è che il libro cartaceo non ha perso il suo primato, la proporzione fra carta e digitale si è stabilizzata. Una cosa, insomma, tutt'altro che scontata, soprattutto tenendo come parametro i mercati dove il libro elettronico ha quote molto più importanti che in Europa.

Ci sono altre valide ragioni per un "data-informed optimist", come si definisce il capo di PRH: un ottimo punto di partenza è che ogni anno i consumatori spendono più denaro per i libri, per storie in long-form, rispetto ad ogni altro periodo precedente. Un'altra ragione, ben più importante, è che  «abbiamo raggiunto un modello di business molto stabile, robusto, sia per la distribuzione fisica sia per quella digitale, anche se ci sono differenze nelle varie parti del mondo. Non tutte le industrie dei media hanno raggiunto questo obbiettivo.  Inoltre, la popolazione globale cresce tra il 3 e il 4% ogni anno; cresce velocemente anche il livello di alfabetizzazione, che porta sempre più persone nell'ecosistema della lettura».

La prova è che, a livello globale, i libri per bambini e per young adults hanno avuta la crescita più importante negli ultimi 25 anni, a partire dal fenomeno Harry Potter, e «questo è importantissimo perché ha portato una nuova e più ampia generazioni nel nostro ecosistema». Un altro flusso di nuovi lettori viene dal boom degli audiolibri «che, apparentemente, stanno incrementando e non cannibalizzando le altre forme del libro, perché mentre si ascolta un buon audiolibro si può fare altre cose». E anche l'audiolibro non ha perso quote durante il lockdown, anzi, in alcuni mercati ne ha guadagnate.

Porter Anderson porta Dohle a guardare il passato recente: «qualche hanno fa pensavamo: nel 2021 ci sarà ancora qualcuno che comprerà libri in cartaceo?». «Certo- risponde Dohle - quando nel 2007 fu lanciato il Kindle, che ha creato il mass market per gli ebook, non sapevamo come sarebbe andata a finire. Gli esperti dicevano che il libro di carta sarebbe morto, ma dopo il 2011 il mercato degli ebook iniziò a stabilizzarsi. Quando abbiamo iniziato a studiare la questione con il mio team ci siamo messi in una "prospettiva agnostica", anche per quanto riguardava i canali distributivi; volevamo crescere in tutti e due i settori, carta e digitale, convinti che una percentuale dei libri - non avevamo idea di quale potesse essere - sarebbe rimasta di carta.  Abbiamo sempre pensato che la visibilità e la "discoverbility" nelle librerie fosse importante, che le librerie stesse fossero importanti, anche quelle indipendenti.  E non abbiamo mai spinto i nostri lettori verso un canale piuttosto che un altro, la decisione spettava a loro: siamo editori, non retailer».

Fra i molti altri argomenti affrontati, uno in particolare può essere utile ai lettori più curiosi delle dinamiche editoriali e a chi ha la percezione che si facciano troppi libri, metà dei quali non vendono praticamente nulla. Vero. Eppure l'unico, possibile modello di business dell'editoria è quello che Dohle definisce "portfolio": «l'editoria investe ogni anno in moltissime storie, nuovi testi, idee e progetti editoriali, e ogni libro è unico, è una specie di start-up. Vorremmo che tutti i libri diventassero classici  moderni... noi pubblichiamo 15.000 titoli all'anno, ma solo pochissimi ce la fanno a raggiungere questo status: sembra che ci sia qualcosa di sbagliato ma non è vero perché il fallimento fa parte del modello di business». Piuttosto, rilancia Dohle, è importante migliorare costantemente il "match", l'incontro, tra autore e casa editrice, e tra testo ed editor, e dare all'editor autonomia creativa e responsabilizzarlo nella parte imprenditoriale. Così nascono i buoni libri, le grandi storie che mantengono il lettore nell'ecosistema della lettura e ne attirano di nuovi. «Siamo ottimisti e comunichiamo questo ottimismo anche internamente, perché questo business lo merita! C'è molto lavoro da fare nel marketing, nella comunicazione, nel pubblicare storie di qualità che diventino catalogo... ma sono convinto che abbiamo una grande opportunità, che porterà  il mondo del libro su un nuovo e più alto livello » conclude Dohle, ricordando che nessuna industria culturale ha saputo far fronte come l'editoria alla carambola di novità, minacce, problemi degli ultimi 25 anni. Da Amazon al selfpublishing.  

Bertelsmann è di proprietà della Fondazione della famiglia Mohn; non è quotata in borsa, non deve rendere conto agli azionisti. È nata nel 1835, a Gütersloh (dove c'è ancora la sede centrale), da Carl Bertelsmann e dalla sua piccola libreria-editrice di testi religiosi. Le revenues del gruppo Bertelsmann sono oggi 17,3 miliardi di euro, quelle di Penguin Random House 3,5 miliardi di euro, e si appresta - se l'antitrust americano darà il via libera -  all'acquisizione di Simon & Schuster, gruppo editoriale americano da 900 milioni di dollari. L'ottimismo, insomma, devi avercelo nei bilanci, oltre che nel sangue. Ma tant'è, secondo lui, sul futuro del libro possiamo stare tranquilli. E a dispetto del numero imponente di dobloni, l'editoria libraria non può fare a meno di quella componente artigianale che troviamo tra le pagine pubblicate da ogni editore, grande o piccolo che sia. Dunque, come dargli torto?

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