Pare addirittura che i grossi calibri abbiano fatto a gara per avere l’onore di sparare l’ultimo colpo di quell’immane massacro. A pochi secondi dallo scoccare delle fatidiche ore 11 antimeridiane dell’11 novembre 1918 i colpi di artiglieria, da entrambe le parti del mattatoio di sangue e fango delle Fiandre, tentano di avere l’onore di sparare l’ultimo colpo della Grande Guerra. La gara dà risultati incerti, e qualche artigliere ritardatario rischia di trasformare in disastro il cessate il fuoco sparando dopo l’orario convenuto.
Più definita, almeno nella memorialistica ufficiale, la sorte di chi riesce a cogliere il poco invidiabile primato di essere l’ultimo morto ammazzato della Prima guerra mondiale.
Henry Ghunter, cittadino statunitense di origini tedesche, si arruola nel corpo di spedizione USA in Europa arrivando sul continente nel luglio del 1918. Gli alleati stanno per far scattare la grande offensiva della Marna, con cui contano di riconquistare il terreno perduto a causa dell’ultima, disperata offensiva tedesca.
Le condizioni dei soldati sono pessime: niente viveri, scarsi equipaggiamenti, una generale rassegnazione agli orrori della guerra. E Henry Ghunter, da poco promosso sergente, in una lettera a casa denuncia le pessime condizioni di vita dei commilitoni e gli aspetti tutt’altro che eroici di quel frantoio d’uomini che è il fronte occidentale. Intercettata dalla censura, la sua lettera gli costa il grado e l’onorabilità.
Gli ultimi mesi del conflitto, per Henry, passano nel disperato tentativo di togliersi di dosso l’etichetta di disfattista. La mattina dell’11 novembre la sua compagnia, che pattuglia una strada di campagna di un paesino della Lorena, sta già festeggiando. La notizia è giunta, la guerra è quasi finita. Una manciata di ore e si potrà tornare a casa.
Hanry Ghunter ha pochissimo tempo per evitare la vergogna del ritorno da degrato, da soldato sconfitto di una guerra vinta. Solo un gesto eroico, una medaglia, potrebbe lavare l’onta. E decide di giocare il tutto per tutto: sono le 10 e tre quarti di mattina di quel nebbioso novembre. I soldati si osservano sorridenti tra i rottami che ingombrano la strada. Di fronte alla compagnia di Henry Ghunter due nidi di mitragliatrici tedesche tengono di mira, stancamente, la strada su cui tra poco si danzerà di gioia.
“Ora o mai più”, deve aver pensato Ghunter, e si slancia fuori dalla trincea urlando, il fucile in mano. Il suo sergente non comprende subito cosa sta accadendo, cerca di fermarlo, prima afferrandolo, poi urlandogli dietro. I tedeschi di fronte a lui lo guardano stupiti. Non capiscono. Con fare bonario gli fanno segno di fermarsi. Non ricevono risposta e le grida dei soldati americani fanno comprendere loro che qualcosa non va.
Nel brevissimo lasso di tempo che impiega Ghunter ad attraversare la terra di nessuno i mitraglieri tedeschi si apprestano, con un terribile automatismo, a ripetere i gesti che hanno già messo in pratica migliaia di volte. Mettersi in posizione. Caricare la cartucciera. Mirare. Sparare.
Henry Ghunter viene falciato da due mitragliatrici alle 10.59 del 11 novembre 1918. Per lo stato maggiore statunitense è, ancora oggi, l’ultimo morto della Prima Guerra Mondiale.
Agli esseri umani immersi nel tempo risulta sempre utile darsi dei punti fermi all’interno del flusso degli avvenimenti: grazie ad essi è infatti possibile costruire una sorta di percorso a tappe che conduca da un prima a un dopo e che, preferibilmente, dia un senso sia all’uno che all’altro.
La vicenda di Henry Ghunter racconta con brutale chiarezza il peso che possono avere i punti fermi, i momenti definiti di passaggio nella storia, e la loro letteralmente mortale importanza nella costruzione dell’immaginario dei singoli e anche delle comunità.
Nei suoi due secoli abbondanti di sviluppo come scienza, la Storia non si è di certo sottratta al compito di definire, costruire e presentare questi “momenti storici”. Anzi, fornire al pubblico date “epocali” o “punti di svolta” attraverso cui mettere degli ancoraggi fissi nello scorrere del tempo è stata una delle principali occupazioni della storiografia occidentale, almeno fino all’esplosione dei punti di vista interpretativi della Global History.
Iniziò l’Illuminismo, con la sua suddivisione del tempo in fette di periodi più o meno densi e con definizioni addirittura qualitative - basti pensare al peso che ha avuto, nell’immaginario comune, chiamare il millennio tra la tarda antichità e il Cinquecento “Medioevo” – a dare il via a una categorizzazione sempre più segmentata dei periodi storici, accompagnando la corsa alla classificazione con una passione piuttosto curiosa per la cronologia di precisione, a volte con risultati sorprendenti: quando finisce per esempio l’impero romano? 410 col sacco di Roma? 476 con Romolo Augusto(lo)? 565 con la morte di Giustiniano? 800 con Carlo Magno imperatore? 1054 con lo Scisma d’Occidente? 1453 con la caduta di Costantinopoli? O proprio nel 1918 con la fine dei Romanov, cesari della “terza Roma”?
Tutte date proposte, alcune provocatoriamente, per indicare dei punti di svolta, delle bandierine piantate nella vastità delle cose che accadono, per dar loro un senso.
La fine della prima guerra mondiale in questo non ha fatto, per lungo tempo, eccezione, anzi: Henry Ghunter e gli artiglieri delle Fiandre dimostrano che quell’11 novembre è percepita come una di quelle rare date in cui, come si dice, si “scrive la storia”.
Ma in realtà quel giorno di novembre, a parte che per Ghunter e per gli altri duemilasettecentotrentasette morti riportati nella puntigliosa statistica bellica, non vi è alcuna rottura drastica dello scorrere degli eventi.
Dal punto di vista politico c’è più fermento che mai, in un susseguirsi di fatti che fanno presto dimenticare il sollievo della fine delle ostilità. Non finisce il lavoro delle cancellerie europee, si scambiano messaggi febbrili mentre gli ultimi rappresentanti di monarchie secolari prendono la via dell’esilio e per le strade di mezza Europa si parla di rivoluzione, mentre sulle stesse strade corre il contagio della prima pandemia dell’era della globalizzazione, la “spagnola”.
La guerra ha scavato ferite talmente pesanti che sarà necessario inventare una nuova categoria temporale che non sia guerra ma nemmeno pace: è il “dopoguerra”.
Per i popoli finiscono gli scontri ma non la fame e l’indigenza: né per gli sconfitti né per i vincitori. L’economia mondiale, che si era sbilanciata in modo pesante verso la produzione bellica , si appresta ad affrontare la più imponente e dolorosa riconversione industriale della storia fino a quel momento.
I soldati continuano a morire; non nelle trincee, ma per le strade di Berlino, Monaco, Milano, Parigi e perfino Londra, negli scontri successivi all’inizio, stentato, della cosiddetta pace. Contingenti militari europei continuano a combattere in Russia, mentre la neonata Turchia e la Grecia si scontrano in un conflitto dai tratti genocidiari. Il Baltico è un mare in fiamme, tra nazionalisti, bolscevichi e Freie Korps. Non solo la Germania sconfitta, ma anche l’Italia vincitrice vengono travagliate dai prodromi di una guerra civile che porterà entrambi i paesi al totalitarismo.
Chi si era illuso, e furono tanti, che quell’11 novembre alle 11 si mettesse fine alla “guerra che avrebbe messo fine alle guerre”, comprende con sgomento che la fine di quella specifica violenza non avrebbe portato alla fine della violenza in generale, mentre sull’Europa già pochi momenti dopo la fine degli scontri si addensano le nubi che porteranno a un altro catastrofico conflitto vent’anni dopo.
La storiografia negli ultimi anni ha messo in discussione il paradigma delle “date certe” per la storia mondiale, e la Grande guerra è stata col tempo ridefinita come l’inizio di un più vasto conflitto che dal 1914 arriva almeno fino al 1945, se non al 1989.
Ne sono stati sondati gli antefatti, che arrivano ben dentro il XIX secolo, e le conseguenze, di cui ancora oggi si possono individuare gli echi. Parlare quindi di “punto fermo” per l’11 novembre 1918 diventa storiograficamente sempre più complesso e meno utile.
Il fascino della data singola, svolta epocale e nodo di trasmissione tra ciò che è accaduto e ciò che sta per accadere, rimane ancora molto forte nel linguaggio pubblico del sapere storico e per molte persone continua ad essere uno dei paradigmi più solidi del modo di immaginare il passato.
Anche se la storia non si ferma mai, trovare ogni tanto dei punti di sosta può rivelarsi ancora un buon modo per non perdersi nella pluralità dei fatti. Basta che queste soste non diventino prigioni in cui rinchiudere l’immagine del passato, bensì punti tappa da cui ripartire per una visione possibile di futuro.
Di
| Laterza, 2019Di
| Il Mulino, 2019Di
| Mimesis, 2016Di
| Laterza, 2016Di
| Rizzoli, 2019Di
| Mondadori, 2019Di
| Il Mulino, 2000Di
| Bollati Boringhieri, 2007Di
| Rizzoli, 2014Di
| Il Mulino, 2014Di
| Laterza, 2020Di
| Adelphi, 2007Ti potrebbero interessare
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