Il libro che mi ha segnato la vita, che mi ha portato fortuna è "Tropico del Cancro" di Henry Miller. L’ho letto ventenne, me ne sono innamorato e l’ho riletto poi tante volte dopo di allora. (…) Mi ha fatto desiderare di andare a Parigi, e ci sono andato in autostop da solo, per ripercorrere le sue orme. E poi di fare il viaggio inverso, di andare in America (…) e provare a scrivere lì
Il “nostro” Enrico Franceschini, giornalista e scrittore di cui potete ascoltare qui il podcast quotidiano "Bassa Marea", ci racconta il suo libro cult: Tropico del cancro di Henry Miller. E lo fa con l’entusiasmo di chi quel libro lo ha letto e riletto e ne ha fatto una sorta di guida ispiratrice, per lo meno in gioventù, tanto da definirne l'autore come il "mio mito, il mio maestro".
Il romanzo autobiografico dello scrittore americano Henry Miller (di cui potete leggere un nostro approfondimento fatto in occasione dei 130 anni dalla nascita) viene pubblicato in Francia nel 1934, mentre negli Stati Uniti vede la luce solo nel 1961 poiché, per lungo tempo, considerato "pornografico" e quindi censurato, definito “un pozzo nero di depravazione” a causa dei numerosi riferimenti decisamente espliciti al sesso oltre che a condotte di vita anticonformiste. Tradotto e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1962, è un romanzo innovativo e rivoluzionario in cui autobiografia, critica sociale e racconti di vita quotidiana si intrecciano in un flusso di coscienza schietto, diretto e quasi irrazionale, che ricorda quello di James Joyce ma ne supera l’artificiosità e quella vena intellettualistica che è insita nella prosa joyciana.
Nell'incantata, effervescente Parigi degli anni trenta, precisamente nel 1934, viene pubblicato da un piccolo editore un libro intitolato "Tropico del Cancro": sarà la miccia di uno scandalo morale e di un'insurrezione letteraria che attraverserà tutto il secolo. Negli ambienti più conservatori si parla di pornografia, nei caffè avanguardisti si inneggia alla rivoluzione: la verità è che "Tropico del Cancro" è uno dei grandi capolavori della letteratura novecentesca, un romanzo autobiografico insostituibile per la forza e la fluidità del suo linguaggio, la potenza del suo immaginario, la vivida resa degli ambienti e dei caratteri. È lo stesso Miller a parlarci di sé in prima persona, a raccontarci dei suoi amici, dei miseri eppure vibranti quartieri che attraversano e vivono.
In questo flusso di coscienza strabordante, Henry Miller racconta in prima persona la sua vita di scrittore squattrinato a Parigi, che condivide con altri artisti eccentrici e altrettanto squattrinati, tra una bevuta, una notte di sesso occasionale, una passeggiata senza meta tra le vie di Parigi. Una narrazione senza filtri in cui rappresenta la vita in ogni suo aspetto, trascendendo così la sua mera esperienza personale, e ci restituisce tutte le sfaccettature dell’esistenza, anche quelle più crude e vili dominate dagli istinti, non risparmiandoci descrizioni degli aspetti più scabrosi e osceni.
In questo modo anticipa il cosiddetto “realismo sporco” della Beat Generation, di cui Miller fu indubbiamente un precursore e per la quale rappresentò un'icona, un esempio di anticonformismo e scrittura che rompe schemi e convenzioni.
La sua prosa ci travolge letteralmente in un turbinio di parole e immagini che ci restituiscono il suo vissuto e, allo stesso tempo, l’immaginario della vita stessa con tutto il suo carico di esuberanza, di fatiche, e della sua forza. Perché per quanto tutto sia provvisorio, dal lavoro alle relazioni personali, per quanto non abbia soldi o certezze su cui posare la sua esistenza, Miller si sente libero. E questa libertà è un inno alla vita e alle infinite possibilità che si celano dietro alla struttura della società e al suo conformismo, al di là del cinismo di alcune pagine e del disgusto che può a tratti suscitare nei lettori.
Nel saggio intitolato Nel ventre della balena, George Orwell spiega benissimo cosa prova un lettore quando si abbandona alla prosa di Miller:
Leggetene cinque, dieci pagine e proverete quel particolare benessere che viene non tanto dall’intendere quanto dall’essere intesi. ‘Quest’uomo sa tutto di me’ voi pensate, ‘ha scritto tutto questo proprio per me’. È come udire una voce che vi parla (…) con solo l’implicito assunto che siamo tutti uguali.
Il senso di immedesimazione che proviamo leggendo Tropico del cancro è fortissimo, nonostante le vicende spesso estreme e disturbanti che vi sono narrate. Miller ci lascia ebbri e desiderosi di vivere tutta la potenziale intensità della vita, prima che scivoli via, trascinata al suo finale annunciato dal “cancro” del tempo che passa.
Così quieta scorre la Senna che quasi non ti accorgi della sua presenza. È sempre lì, tranquilla e discreta, come una grande arteria che scorre nel corpo dell’uomo.
Infine, tra le pagine più intense ci sono quelle dedicate a Parigi, che fa da sfondo a questa autobiografia in forma di romanzo, ed emerge come protagonista di descrizioni magnetiche, struggenti, poetiche o durissime, perfettamente cesellate dalla penna di Miller.
Parigi appare in tutta la sua maestosità e bellezza ma anche in tutta la sua decadenza. Una Parigi vissuta e intuita nel profondo, quella degli espatriati, dei salotti colti e delle squallide stanze delle prostitute, con i suoi tetti lucenti di pioggia, i suoi viali alberati, le strade brulicanti di vita e i vicoli bui dove striscia l’umanità più reietta; con le sue brasserie e i suoi café all’aperto, i cieli sgombri di nubi, le luci sfavillanti dei palazzi dei quartieri ricchi e la desolazione delle abitazioni fatiscenti in quelli poveri.
Parigi, perfetta anche quando non lo è affatto, ha rappresentato il sogno e la libertà per molti artisti, scrittori, sognatori e per la gente comune, a cui si dona ogni giorno e che, dopo aver letto Miller, ci resta ancora più nel cuore.
Un carrozzone delle Galeries Lafayette rimbombava sul ponte. La pioggia era cessata e il sole irrompendo tra le nuvole saponose toccava con un fuoco freddo il lucido caos dei tetti. Ricordo come il vetturino si sporse e guardò il fiume.(…) Uno sguardo così sano, semplice, d'approvazione, come se dicesse a se stesso: "Ah, viene la primavera!" E lo sa Dio, quando viene la primavera a Parigi il più umile dei mortali viventi deve aver la sensazione di abitare in paradiso. Ma non era soltanto questo: era la confidenza con cui il suo occhio si posava sulla scena. La sua Parigi. A uno non occorre essere ricco, anzi nemmeno cittadino, per sentirsi in questo modo a Parigi. Parigi è piena di gente povera: il più nobile e il più sporco branco di mendicanti che abbia mai calpestato la terra, pare a me. Eppure, danno l'impressione d'essere a casa loro. É questo che distingue la parigina da tutte le altre anime metropolitane.
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