Uno dei grossi problemi del nucleare è che, un po’ come Big Pharma, si presta molto bene come strumento narrativo per rappresentare la tecnoindustria avida e corrotta: è così che una leggenda metropolitana come tante è diventata il pretesto per un film di Hollywood di enorme successo con Jane Fonda, Jack Lemmon e Michael Douglas. Il 28 marzo del 1979, circa due settimane dopo la prima di quel film che fin dal titolo evocava la “Sindrome Cinese” – ovvero il rischio che la fusione del nocciolo di una centrale nucleare potesse scavare un cratere facendogli attraversare la Terra fino a sbucare agli antipodi – l’opinione pubblica americana scoprì che una lunga serie di imprevisti, malfunzionamenti ed errori umani aveva provocato un incidente proprio in una centrale nucleare appena inaugurata sull’isola chiamata Three Mile Island, sul fiume Susquehanna nei pressi di Harrisburg, in Pennsylvania.
"Era in corso un tipico incidente da perdita di refrigerante, che può portare al surriscaldamento delle barre e alla fusione del nocciolo. Gli operatori di una centrale sono addestrati per questi incidenti e sanno affrontarli con conseguenze minime, purché se ne accorgano” racconta Silvia Kuna Ballero nel suo libro che nel titolo strizza l’occhio a un altro capolavoro della cinematografia, Travolti da un atomico destino. Perché non ci fidiamo del nucleare (Chiarelettere, 2022).
Il nucleare ci salverà o ci distruggerà? L'energia atomica è da sempre oggetto di mitologie, false credenze, mistificazioni. I mostri radioattivi e le lande contaminate protagonisti di tanta letteratura e cinematografia pervadono il nostro immaginario sul nucleare fin dal periodo della Guerra fredda e, nel tempo, a tali paure se ne sono aggiunte altre più concrete che rispondono ai nomi di Černobyl e Fukushima.
Il titolo ammiccante potrebbe trarre in inganno, ma a dispetto del sottotitolo il libro non invita a diffidare.
Ballero, che ha una formazione in astrofisica e oggi si divide tra l’insegnamento della matematica e la comunicazione della scienza, ha voluto visitare personalmente la zona di Cernobyl ancora oggi contaminata dall’incidente occorso nel 1986. Durante quella visita, poco prima dell’invasione russa dell’Ucraina, ha conosciuto una delle famiglie che sono tornate a vivere poco fuori dalla cosiddetta “zona di esclusione”, l’area visitabile solo con abbigliamento protettivo, numerose precauzioni e una costante attenzione al dosimetro:
“Maria e il marito sono tornati nella loro casa nella Zona pochi anni dopo il disastro. L’anno scorso lui è venuto a mancare e lei non ha più la forza di stare dietro ai maiali, si dedica solo alla coltivazione. Nel suo orto riconosco le zucche e un amaranto di un intenso e indimenticabile colore. Seduti al lungo tavolo di legno nel cortile, ci vengono serviti ortaggi, pane fatto in casa, lardo di maiale patate e frittelle alla marmellata. Cogliamo delle occhiate furtive, ma vuoi dire di no a una babuska che ti ‘comanda’ di mangiare? Qualunque fosse il rischio, ne è valsa la pena, e lo rifarei ancora” racconta.
Il libro ripercorre in dettaglio l’ampia gamma di ragioni storiche, sociali, psicologiche e ovviamente quelle legate alla comunicazione del rischio per cui oggi è quasi inevitabile che un cittadino occidentale mediamente informato propenda per un atteggiamento di diffidente timore, magari senza neanche sapere esattamente a cosa ascriverlo. Come era accaduto in Inghilterra con l’incidente di Sellafield e sarebbe poi accaduto in Giappone con quello di Fukushima, agli errori nella gestione dell’emergenza si sono sommati gli errori nelle comunicazioni al pubblico, spesso reticenti e contraddittorie, e sempre profondamente inadeguate:
“A Three Mile Island le relazioni con il pubblico non furono all’insegna dell’insabbiamento, ma di una clamorosa sprovvedutezza” riassume Ballero.
Addirittura disastrosa è stata la gestione dell’incidente di Fukushima, cui è seguita la decisione di chiudere le centrali nucleari, aumentando la dipendenza del Giappone dai combustibili fossili, con un aumento dei costi che secondo alcune stime ha causato un significativo eccesso di mortalità nelle fasce di popolazione più povera, stimato in 4.500 decessi nei quattro anni successivi all’incidente.
“Anche questi, volendo, sono morti di Fukushima; e ci ricordano che se è giusto porsi delle domande sul rischio costituito da una tecnologia, è giusto anche domandarsi qual è il rischio di non averla”.
Sono domande che la crisi climatica e quella energetica rendono sempre più inderogabili e urgenti, e che non hanno una risposta univoca, e tanto meno una risposta “scientifica” come qualcuno ancora oggi insiste ad affermare. Tuttavia il libro permette di valutare in dettaglio tutti gli aspetti che le varie discipline – comprese quelle tradizionalmente considerate meno “scientifiche” rispetto alla fisica o all’ingegneria – hanno da offrire per arrivare a prendere decisioni importanti per il futuro di tutti.
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