Nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato
La mattina dell'11 aprile 1987 il corpo senza vita di Primo Levi viene ritrovato alla base della tromba delle scale del palazzo di Torino in cui ha vissuto per quasi tutta la sua esistenza.
L’ipotesi di un suicidio sembra la più attendibile, anche in assenza di un messaggio che ne spieghi il gesto. I familiari parlano di uno stato depressivo che logorava lo scrittore da tempo e che può, in qualche modo, spiegare quel fatale salto nel vuoto.
Tuttavia, un alone di mistero avvolge ancora oggi la sua morte, perché l’ipotesi di un incidente non è mai stata del tutto esclusa.
A distanza di 35 anni resta la certezza di una perdita enorme, della scomparsa a 67 anni di uno scrittore amatissimo che, sicuramente, avrebbe avuto ancora molto da dire e su cui farci riflettere.
E’ straziante pensare che un uomo sopravvissuto all’orrore dei campi di concentramento e che ha fatto della sua esistenza testimonianza viva e prolifica di tale orrore, decida di uccidersi. Viene da interrogarsi sul peso che incombeva su di lui e su quale ombra di morte e sofferenza per gli abusi patiti e osservati nel lager lo tormentasse. Il “dono avvelenato” del raccontare, quell’impegno a testimoniare il male assoluto riversato sugli ebrei nato già nei giorni della prigionia, deve essere stato un fardello molto più opprimente di quanto egli lasciasse intuire.
E oltre a questo peso, se ne intravvede uno ancora più nefasto. Quello del senso di colpa di chi sopravvive e porta per sempre con sé il ricordo di chi non ce l’ha fatta. Nel suo ultimo libro, I sommersi e i salvati, egli scrive:
Fui un eletto, io, un salvato. E perché proprio io? Forse perché scrivessi, e scrivendo portassi testimonianza, come mi spiegò un amico religioso? (…) L’ho fatto meglio che ho potuto, e non avrei potuto non farlo; ma il pensiero che questo mio testimoniare abbia potuto fruttarmi da solo il privilegio di sopravvivere, e di vivere per molti anni senza grossi problemi, mi inquieta, perché non vedo proporzione fra il privilegio e il risultato.
Lo ripeto, non siamo noi superstiti i testimoni veri. È questa la nozione scomoda, di cui ho preso coscienza a poco a poco, leggendo le memorie altrui, e rileggendo le mie a distanza di anni. Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto (…) non è tornato per raccontare o è tornato muto; ma sono loro, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione.
Una intervista con il curatore dell'opera di Primo Levi, Marco Belpoliti, in ricordo della tragedia della Shoah. Attraverso le parole di Primo Levi e di Belpoliti viviamo un'esperienza immersiva, toccante, che ci fa ragionare e ci dà un'opportunità di farci delle domande e sollevare problemi.
Come può una vittima arrivare a pensare questo della sua liberazione, a definirsi un “privilegiato”? Se davvero Primo Levi si è suicidato, può sembrare che si sia voluto unire alle schiere dei sommersi, diventando un testimone alla stregua di quanti non avevano fatto ritorno e che, con la loro assenza, urlavano tutto l'orrore dello sterminio.
Eppure, il suicidio può apparire un estremo gesto di sconfitta, una rinuncia a portare avanti la testimonianza di cui si era fatto carico. Possibile che fosse preoccupato che la sua voce stesse perdendo efficacia? Che stesse diminuendo l’interesse verso quanto aveva da raccontare? Sempre ne I sommersi e i salvati afferma:
L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dai lager nazisti è estranea alle nuove generazioni e sempre più estranea si va facendo man mano che passano gli anni
Quanto doveva essere penosa tale consapevolezza? Temere che si stesse esaurendo lo scopo che in qualche modo giustificava il suo essere sopravvissuto?
Alla luce di queste riflessioni, sentiamo di doverlo ringraziare ancora una volta e più intensamente. Per il suo coraggio, la sua dolorosa dedizione, per averci aperto gli occhi ed essersi sforzato finché ha potuto di farceli tenere ben aperti.
Nella prefazione del 1947 a Se questo è un uomo, Primo Levi scrive:
A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che “ogni straniero è nemico”. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente (…) non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene (…) al termine della catena, sta il Lager
Le sue parole riecheggiano come un monito nelle coscienze di chi vuole ascoltarle. Non facciamole cadere nell’oblio e nell’indifferenza! Perché il male è ovunque, è insidioso e va contrastato con ogni mezzo. Ma per riconoscerlo dobbiamo dare valore all’istruzione, alla cultura, favorire la riflessione e consapevolezza individuale oltre che collettiva.
Sì, individuale. Deve partire da ognuno di noi, come individui pensanti, perché la vita e la morte di Primo Levi e di tutti gli altri sommersi venga onorata da una società libera e civile, che non dimentica e non ripete gli errori del passato.
Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,/ Che lascia dietro di sè mari e tempeste,/ I cui sogni sono morti o mai nati,/ E siede a bere all’osteria di Brema,/ Presso al camino, ed ha buona pace./ Felice l’uomo come una fiamma spenta,/ Felice l’uomo come sabbia d’estuario,/ Che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,/ E riposa al margine del cammino./ Non teme né spera né aspetta,/ Ma guarda fisso il sole che tramonta.
Sono ventuno gli elementi chimici che danno il titolo ai racconti di questo libro, e ventuno i capitoli di un'autobiografia straordinaria e tragica, ordinaria e immortale, segnata in modo indelebile da quell’odio inspiegabile che ha spezzato milioni di vite dentro e fuori i campi di concentramento. Racconto dopo racconto, atomo dopo atomo, possiamo conoscere meglio Primo Levi in tutti i suoi aspetti, dal ragazzo timido al partigiano, dal prigioniero ebreo al professionista instancabile che vive la sua vocazione per la chimica.
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